Chi giudica deve essere percepito come neutrale
C’è un momento in cui il dibattito pubblico smette di essere una semplice divergenza di opinioni e diventa una questione istituzionale. Quel momento arriva quando, per sostenere una tesi politica, si arriva a mettere in bocca a un uomo parole che non ha mai pronunciato, soprattutto se quell’uomo è Giovanni Falcone. Non un magistrato qualunque, ma un simbolo dello Stato, della lotta alla mafia e del senso più alto del dovere pubblico, pagato con la vita.
La trasmissione di Nicola Porro ha avuto il merito, raro e necessario, di riportare la discussione su un terreno che oggi sembra quasi dimenticato: quello dei fatti. Nel farlo, Porro ha sconfessato pubblicamente, davanti a tutta Italia, Nicola Gratteri, che aveva richiamato un’intervista mai esistita attribuendola a Falcone per sostenere una posizione contraria alla separazione delle carriere. Non si è trattato di una sfumatura interpretativa o di una lettura diversa di un testo ambiguo, ma di parole che Falcone non ha mai pronunciato.
Verità documentale e metodo della giustizia
Al contrario, esistono documenti ufficiali, testimonianze scritte e dichiarazioni registrate che raccontano esattamente l’opposto: Falcone riteneva necessaria una riforma che distinguesse in modo chiaro chi accusa da chi giudica. Portare alla luce queste fonti, metterle nero su bianco e confrontarle con una ricostruzione inventata non è un attacco personale, ma un atto di correttezza intellettuale e di rispetto verso la verità storica.
Ed è proprio qui che il tema smette di essere una disputa tra visioni diverse della giustizia e diventa qualcosa di più profondo. Quando un magistrato utilizza il nome di Falcone per rafforzare una tesi politica, attribuendogli consapevolmente un pensiero che non era il suo, il problema non è la riforma in sé, ma il metodo. Perché la magistratura fonda la propria legittimazione sull’imparzialità, e l’imparzialità presuppone un rapporto rigoroso con la verità.
Se la verità viene piegata a una causa, anche ritenuta nobile, si rompe il patto fiduciario tra cittadini e giustizia. La Costituzione affida ai magistrati un potere enorme proprio perché presume che venga esercitato senza appartenenze ideologiche, senza militanza, senza narrazioni funzionali. Nel momento in cui un credo politico prevale sui fatti, quel presupposto viene meno.
Neutralità, fiducia e legittimazione democratica
Il ragionamento, in fondo, è semplice e lineare. Chi giudica deve essere percepito come neutrale. Chi è schierato non è neutrale. Chi non è neutrale, anche se animato da buone intenzioni, finisce per alterare l’equilibrio del sistema. È lo stesso principio che vale in qualsiasi ambito regolato da regole condivise: un arbitro non può scendere in campo con una squadra del cuore. Anche se giurasse di essere onesto, il solo sospetto falserebbe la partita. Nella giustizia, però, non si falsano partite, ma diritti, libertà e destini personali.
Attribuire a Falcone pensieri che non gli appartenevano non è solo un torto alla sua memoria, ma un danno al concetto stesso di giustizia. Falcone rappresentava il rigore, la distinzione netta tra funzione pubblica e convinzioni personali, il rispetto assoluto dei fatti. Usarlo come strumento di una battaglia ideologica significa tradire ciò che incarnava.
Il valore della trasmissione di Nicola Porro sta proprio in questo: nell’aver ricordato che prima delle opinioni vengono i documenti, prima delle narrazioni i fatti, prima della politica il diritto. Non è una presa di posizione di parte, ma una difesa del metodo democratico. Perché una giustizia credibile può essere severa, può essere scomoda, ma non può mai essere costruita sulla falsità.
Giustizia e verità nello Stato di diritto
Quando la verità viene sacrificata sull’altare dell’ideologia, non è più la giustizia a parlare, ma la politica travestita da toga. E questo, in uno Stato di diritto, non è accettabile.
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