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Attualità

Sicurezza contesa, sulle Ceneri di Gramsci si incrina lo Stato

di Giuseppe Tiani -


Sicurezza contesa e crisi dell’ordine pubblico

C’è un’immagine che segna la vita pubblica, i poliziotti costretti a presidiare piazze trasformate in teatri bellici, attraversate da ordigni artigianali e strumenti offensivi che mutano il dissenso in violenza. Non è solo un problema di ordine pubblico, ma il sintomo di un cedimento della civiltà democratica, dell’erosione dell’alfabeto civile del rispetto che dovrebbe precedere ogni conflitto. Prima che i poliziotti calzino i caschi protettivi, dovrebbe esistere il riconoscimento condiviso del valore della funzione di chi indossa l’uniforme. Questa precondizione dissolta rivela la stanchezza di uno Stato sempre meno autorevole nelle sue funzioni più sensibili.

La sicurezza pubblica, un tempo affiancata alla giustizia per nobiltà istituzionale, è divenuta materia di contesa, agitata nei salotti televisivi, usata come segnaletica di consenso dalla maggioranza e come arma impropria dall’opposizione. Una deriva che ricorda il destino della magistratura, trascinata nell’agone partigiano fino a smarrire l’aura dell’antico prestigio che ne garantiva l’autorevolezza. Così la sicurezza rischia di ridursi a simbolo identitario tossico, anziché rimanere funzione dello Stato.

Tensioni istituzionali e fratture interne

A ciò si somma la crescente domanda di protezione che proviene dai territori, con alcuni Sindaci delle grandi città inclini allo scontro con il Ministro dell’Interno su un terreno che richiederebbe condivisione responsabile. Le pressioni e tensioni crescenti, spesso alimentate e manipolate nel dibattito pubblico e nell’aspro confronto in Parlamento su sicurezza, ordine pubblico e immigrazione irregolare, finiscono per erodere la coesione del fronte sindacale unitario dei poliziotti e per aggravare le dinamiche interne al Viminale. Accade nonostante l’affidabilità della prudente e qualificata linea istituzionale del Ministro Piantedosi, sino a sfociare nella notizia di un aggressivo diverbio, se non fisico, tra alti dirigenti. L’ordine pubblico è un bene comune. Alimentarne lo scontro oltre la fisiologia del confronto politico significa rinunciare alla rappresentanza generale. In questo clima, vicende come quella di Shalabayeva diventano detonatori di sfiducia sistemica, soprattutto nei settori investigativi e nel contrasto all’immigrazione clandestina.

Delegittimazione delle forze dell’ordine e crisi del patto sociale

Non solo per le contraddizioni dei giudicati, ma perché si innestano in un ambiente già avvelenato, in cui i poteri dello Stato sembrano preferire il corto circuito all’assunzione di responsabilità. Intanto chi garantisce l’ordine pubblico paga un prezzo elevato, ferimenti gravi, processi mediatici o giudiziari per ogni intervento, presunzioni di illegittimità capovolte. Questori e agenti sono esposti a narrazioni senza scrupolo che ne distorcono le funzioni. È un rovesciamento culturale prima che politico, si colpiscono i custodi dello Stato nel momento in cui lo Stato mostra le sue fragilità.

Tutto ciò avviene mentre si incrina il patto sociale. Servirebbe riscriverlo, ma chi ne ha oggi la statura? Non si intravedono nuovi Rousseau o Tocqueville, né figure con la postura politica e istituzionale della visione civile e maestra del pensiero di Moro, la sobrietà dell’etica civile di Berlinguer e la questione morale come leva rigeneratrice della sfera pubblica; né la forza riformatrice del socialismo di Craxi o l’impronta popolare e innovatrice di Berlusconi, che ha inciso sul sistema politico-mediatico e sul costume nazionale.

Leadership assenti e rischi per la tenuta democratica

Rimane un panorama di leadership effimere, linguaggi impoveriti e volgarità scambiate per consenso. Nel vuoto restano esposti proprio coloro che servono le istituzioni con disciplina e sacrificio. Uno Stato, o parte di esso, che lascia soli i propri agenti tradisce sé stesso, senza ordine pubblico non c’è tutela dei diritti, senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non esiste una democrazia sostanziale. Ripartire significa riconoscere che la sicurezza non è proprietà dei partiti, né degli apparati, né dei Sindaci, ma del Paese. E chi la garantisce non è un ingranaggio sacrificabile, ma un presidio fatto di responsabilità e rischio, con volti e biografie. Se questo principio non viene recuperato, l’Italia rischia stagioni tempestose, in cui l’ordine pubblico sarà ostaggio di rapporti di forza o pulsioni emotive e qualunquiste.

Quando la sicurezza diventa campo simbolico di battaglia e non presidio comune, a perdere non sono solo gli agenti, ma il fondamento democratico nato dalla Resistenza. Il lucido monito che Pasolini affidò alle Ceneri di Gramsci, evocando il fazzoletto rosso come ultima brace sotto la cenere, austera e civile, misura della nostra fedeltà ai valori repubblicani, l’orizzonte etico della democrazia. È su quella brace che si giudica non ciò che proclamiamo, ma la capacità di essere custodi di un’autorità democratica orientata al servizio, non al dominio.

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