L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Attualità

Dioniso, le maschere, il carnevale e il vino

di Michele Enrico Montesano -


“Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Così scriveva Pirandello in Uno nessuno e centomila. Se oggi mascherarsi avviene solo durante il carnevale, il fenomeno in realtà ha origini antichissime. L’antropologo britannico Edward Burnett Tylor usa il termine “fossile sociale” per spiegare come, pur perdendo il loro significato originale, continuano ad esistere fenomeni come quello del Carnevale. Una festa di origini pagane, risalente alle cerimonie diffuse in Mesopotamia e presso i popoli indoeuropei. Nell’antica Grecia queste feste erano celebrate tra l’inverno e la primavera, in onore di Dioniso. Tra le molte feste, le più importanti erano le Grandi Dionisie e si svolgevano tra il 10º e il 14º giorno di Elafebolione (corrispondente all’incirca tra il 25 marzo e il 10 aprile). Da Dioniso nasce la tragedia e in generale il Teatro. I contadini si riunivano per cantare i ditirambi, ossia i canti corali rituali, eseguiti in coro. Ballando e cantando in cerchio, spesso mascherati da capre o caproni, animali sacri al dio. Questi riti erano tanto festivi quanto sacri: il vino, prodotto della terra e simbolo di estasi e liberazione, serviva a rompere le barriere tra uomo e divino. Si credeva che, attraverso il vino e il canto, si potesse entrare in comunione con Dioniso. I partecipanti si travestivano con pelli di capra, cantando e danzando in processione. Il termine “tragedia” infatti deriva da “tragōidía”, che significa letteralmente “canto del capro” o “dei capri”. La radice verbale (aj) in indoeuropeo significava “avvio di un moto rettilineo”. Vivere era infatti inteso come un processo di moto in avanti, progredire. La radice (aj) divenne in greco ἄγω (àgō) “condurre”. La capra, l’animale sacro per Dioniso ha la stessa etimologia. Così come agape, l’amore morale e disinteressato, contrapposto all’eros. C’è stato un tempo, però, in cui i seguaci di Dioniso non utilizzarono maschere. Si cospargevano il capo di foglie e si tingevano il viso con la fuliggine, il mosto o altre sostanze coloranti. Il primo fu Tespi, che nel VI secolo a.C., passò dall’uso della biacca alle maschere in lino, in sughero o in legno. Frinico, suo allievo, introdusse quella chiara per i personaggi femminili e quella scura per quelli maschili. La scelta delle maschere a Teatro fu adottata per consentire al pubblico di individuare immediatamente il personaggio. Nel Teatro greco un attore impersonava più ruoli. La maschera era un segno distintivo e chiaro che consentiva allo spettatore di non perdersi durante lo spettacolo. Le maschere servivano anche per incarnare gli dei, che non potevano essere rappresentati in nessun modo da volti umani. Una via per uscire da sé, tra maschere, Teatro e vino.


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