Economia

Ecco la terza rata, l’Italia cresce ma non basta: troppi poveri

di Giovanni Vasso -

EX CASERMA ROSSANI CANTIERE NEL QUALE SORGERA' LA NUOVA SEDE ACCADEMIA BELLE ARTI OPERAI, OPERAIO, LAVORO


Dopo un tira e molla lunghissimo, forse è la volta buona, la terza rata del Pnrr è vicino a sbloccarsi. Grazie a uno sconticino, da mezzo miliardo, Bruxelles s’è decisa a sganciare la terza tranche di fondi per il piano. Ma quei denari non andranno persi. I soldi che serviranno per l’edilizia universitaria, infatti, saranno conferiti all’Italia con la quarta rata. In totale, il pagamento che Roma attende dalla Commissione Ue è pari a 18,5 miliardi di euro. Se ne aspettavano diciannove ma 519 milioni di euro saranno stralciati dalla terza per finire alla prossima rata del piano.
La proposta è arrivata proprio da Bruxelles e a Palazzo Chigi, l’altro giorno, s’è subito riunita la cabina di regia per cogliere fino in fondo l’occasione tanto attesa.. Il compromesso sta nel tema delle case e dei posti letto per gli studenti universitari. L’obiettivo, da target quantitativo, diventa una milestone qualitativa. Ci sarà tempo fino al 2026 per assegnare 60mila posti letto mentre, per ottenere il pagamento in terza rata, si sarebbe dovuto cogliere il traguardo del 7.500 posti assegnati entro il dicembre 2022. L’avvio delle assegnazioni è stabilito entro il 30 giugno di quest’anno. Il pagamento dei fondi slitta alla prossima rata. In cambio di una dilazione su 519 milioni, il governo porta a casa la tanto sospirata terza rata. Si chiudono, così, mesi intensi di trattative che hanno registrato più di un momento di tensione. Tra il governo Meloni e la Commissione e tra le diverse anime politiche presenti in parlamento. Ma lo stralcio dei fondi per i posti letto universitari non ha di certo reso felici le opposizioni che, anzi, hanno battuto su questo tasto per attaccare Palazzo Chigi. Che ora, però, ha messo a segno un risultato importante. Soprattutto se viene letto insieme alle previsioni e alle analisi delle agenzie di rating e del mondo economico e finanziario. L’ultima, quella di Standard & Poor’s, ha scongiurato il rischio di recessione per l’Italia e ha confermato che, dai fondi del Pnrr, dipende la dimensione della crescita del Pil atteso per quest’anno. L’arrivo, che pare imminente, dei soldi è una notizia confortante che rafforza le chance, per l’economia del nostro Paese, di mostrarsi più solida e vitale tra quelle dei partner Ue. A rafforzare l’ottimismo sull’economia italiana sono arrivate, ieri, le analisi economiche e finanziarie dei Crédit Agricole. Secondo cui l’Italia crescerà dell’1,2% quest’anno e si sbilancia a ipotizzare un aumento del Pil, per il 2024, pari all’1,1%: “I dati del primo trimestre mostrano due cose – scrivono gli analisti – : da un lato una migliore tenuta dell’attività italiana rispetto ai grandi Paesi vicini e, dall’altro, l’entrata in una fase di stabilizzazione e normalizzazione dei motori della domanda”. Insomma, mentre Francia e Germania zoppicano, l’Italia marcia spedita. Ma non sono tutte rose e fiori. Anzi. Perché c’è una spada di Damocle che pende sul sistema economico italiano. È il lavoro.
La polemica politica, ieri, è tornata a portare al centro dell’agenda politica il tema del salario minimo. Le parole del ministro del Mare Nello Musumeci sono state nette: “Basta assistenzialismo”. Le reazioni sono state più che piccate. Le opposizioni si sono ritrovate a sparare ad alzo zero contro l’esponente del governo. A cui hanno ricordato che l’Italia è uno dei Paesi in cui le retribuzioni hanno perduto più valore reale. E i dati, pubblicati nelle scorse settimane e nei mesi passati, dall’Ocse fino all’Istat, hanno svelato che i “padroni” italiani sono tra i più tirchi d’Europa e le paghe offerte sono quasi sempre al di sotto delle medie Ue. Inoltre c’è la questione del lavoro povero. Degli impieghi pagati a 5-6 euro l’ora. Da contratto collettivo nazionale. Una vergogna. Che si innesta su un’altra, concentrica a questa. In Italia i poveri sono molti di più che nel resto d’Europa. Lo ha denunciato, tra gli altri, il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinal Matteo Zuppi: “Penso a coloro che vivono in condizioni di povertà, stimati essere in Italia il doppio che in Europa”. E poi ci sono i dati dell’Istat: la stima è che un quinto della popolazione viva pericolosamente a ridosso della soglia di povertà. E che ben 2,7 milioni di lavoratori siano a rischio di esclusione sociale nonostante abbiano un impiego.
A cui la sinistra vuole replicare con l’istituzione di un salario minimo da nove euro l’ora. In linea con quello che succede e che già ci sarebbe in Europa. Il problema, però, è che in Italia si fa presto a invertire le cose. Si parlava di flessibilità, ai tempi, come dell’elisir di lunga vita per l’economia e per il lavoro. È finita con il precariato a tempo indeterminato. Facile che fissare un’asticella minima finisca per essere “interpretato” come un tappo. E che il salario minimo diventi quello normale. Per questo il vicepremier Antonio Tajani ha detto che si tratta di uno strumento da Unione Sovietica.
Intanto, però, il lavoro attende risposte. E devono arrivare ora. Che la terza rata del Pnrr si è sbloccata e che la crescita può riprendere la sua marcia senza problemi.


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