Editoriale

Il futuro in prestito

di Tommaso Cerno -


Il futuro in prestito

Il debito pubblico è il debito privato, così il futuro è diventato un prestito. Perché ormai è chiaro che sulla base di un teorema secondo il quale gli accordi presi nei decenni fra Stati dell’Occidente sono irremovibili, chi paga il conto è chi questo debito non l’ha né fatto né voluto. I cittadini e soprattutto chi verrà dopo di noi.

Ma se un sistema ti ha prospettato in cambio delle tue tasse e della tua adesione al patto sociale su cui si fondano le democrazie un percorso che improvvisamente viene meno, le strade che si possono seguire sono due: cambiare i propri sogni in incubi oppure cambiare quel patto fondativo fra di noi nel nome di un progresso necessario che possa domani portarci nella condizione di risanare quel debito, rispettando i nostri impegni, ma di fronte a una prospettiva rinnovata e un patto sociale che ci proietta nel futuro. È per questo che abbiamo aperto il dibattito sulle soluzioni alternative alle lacrime e sangue, quelle che il ministro Giorgetti ha sintetizzato con la sveglia che suona. Che tanto ci ricorda però un altro detto italiano, la campana che suona, e quella domanda retorica fino a un certo punto che vuole sapere perché questo rintocco sta squarciando il silenzio.

Perché l’economia tace di fronte a un necessario cambiamento rivoluzionario della sua grammatica e delle sue regole. Una grammatica che sui libri avrebbe più di una soluzione per declinare la situazione dei conti pubblici, le aspettative dei cittadini, lo scenario internazionale mutato e mantenere la giustizia bancaria dentro i livelli di salvaguardia del sistema che sono necessari ma serve che ci sia un nuovo patto fra la politica e l’economia, nel secolo dove il comunismo e il capitalismo soffrono dello stesso male, la finanza scappata dal recinto e ormai fuori controllo, che ha numeri tali e gestisce interessi tali da non essere assoggettabile da nessun potere finora progettato e realizzato dall’uomo, con l’esito finale di sentirci cittadini imprigionati nelle regole e non incastrati in una democrazia dove queste regole servono ad andare avanti.

E così la sveglia di Giorgetti dobbiamo farla suonare tutti noi, bella forte, dentro le nostre teste perché si interrompa il sonno della ragione rispetto all’idea che l’Occidente non abbia solo debiti da saldare e guerre da vincere ma anche un futuro da costruire. E che dentro questo futuro ci sta certo la tecnologia avanzata e ci stanno certi mercati globali, ma non possono essere loro a decidere quando e come milioni, anzi miliardi di persone devono lavorare, vivere, morire.

E invece finora noi dall’economia abbiamo avuto soltanto spiegazioni a posteriori, tipiche di un mondo dove le previsioni erano sbagliate e nessuno vuole ammetterlo, tipiche di un mondo a rate, proprio come i mutui di casa nostra, che all’improvviso si scopre diverso dalle ragioni per cui tanti anni fa milioni di noi avevano sottoscritto un accordo che aveva certo degli obblighi, ma anche dei vantaggi. E che oggi non hanno più voce, visto il ruolo marginale dei governi nella gestione della vita quotidiana dei cittadini, per ricontrattare quelle clausole che in maniera unilaterale un capitalismo mutato di forma e di dimensione ha cambiato da un giorno all’altro senza dirlo a nessuno.


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