Irma Conti: “La sfida è ricostruire fiducia e responsabilità collettiva”
L’avvocato Irma Conti è componente del Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e Presidente dell’Associazione Donne Giuriste Italia. Una vita dedicata alla tutela dei diritti direi più fragile, impegno e dedizione che si rinnovano giorno dopo giorno.
Avvocata Conti, la sua carriera è sempre stata legata alla tutela dei diritti e alla giustizia. C’è un momento o un incontro che considera decisivo nel suo percorso? E che significato ha avuto per lei il titolo di Cavaliere della Repubblica, conferitole nel 2014?
“Ogni percorso professionale è fatto di incontri, ma anche di scelte. Ho scelto di occuparmi di diritti perché credo profondamente che il diritto non serva solo a regolare i conflitti, ma a prevenirli, a costruire una società più giusta e rispettosa. Il titolo di Cavaliere della Repubblica, ricevuto per il mio impegno nella lotta contro la violenza sulle donne, rappresenta uno dei momenti più significativi della mia vita. È stato un riconoscimento collettivo, rivolto a tutte le donne che, spesso nel silenzio, portano avanti battaglie per la libertà e la dignità. Quel riconoscimento mi ha ricordato che la vera forza del diritto è nella sua capacità di proteggere, di dare voce e strumenti a chi non ne ha”.
Dal 2020 lei è Presidente nazionale dell’Associazione Donne Giuriste Italia. In un contesto sociale in continua evoluzione, qual è oggi la missione dell’ADGI?
“L’ADGI nasce con l’obiettivo di promuovere la cultura della parità e del rispetto, ma oggi questa missione è ancora più urgente. Viviamo un tempo complesso, in cui la violenza contro le donne assume forme sempre più subdole e diffuse: serve un approccio integrato, giuridico e culturale. Come Associazione lavoriamo su due piani: quello normativo, con proposte di legge e attività di advocacy istituzionale, e quello formativo, attraverso progetti di educazione alla legalità nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Credo profondamente che la prevenzione sia la più alta forma di tutela. Educare al rispetto significa evitare che la violenza accada, significa costruire consapevolezza prima che si renda necessaria la difesa. La parità, in fondo, non è una battaglia delle donne, ma un traguardo di civiltà per l’intera società”.
Dal 2024 lei è componente del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Quali sono le priorità che sta perseguendo in questo ruolo?
“Il Garante Nazionale rappresenta un presidio di democrazia e umanità. Il nostro compito è garantire che, anche dove la libertà è limitata, resti intatta la dignità della persona. Nel solo 2024 il Garante ha effettuato 82 visite negli istituti penitenziari, percorrendo oltre 70.000 chilometri; e nel 2025, a oggi, sono già 39 le visite, con più di 23.000 chilometri percorsi. Sono numeri che raccontano un impegno costante, fatto di presenza e ascolto. Entrare in carcere significa conoscere la realtà per poterla migliorare, significa prevenire abusi e promuovere il rispetto dei diritti fondamentali. La privazione della libertà non può mai trasformarsi in privazione della dignità. È su questo principio che si fonda ogni mia azione, insieme a un’idea chiara: la prevenzione non appartiene solo alla sanità o alla scuola, ma anche alla giustizia.
In base alla sua esperienza, quali sono le principali criticità del sistema penitenziario italiano, soprattutto rispetto ai diritti fondamentali delle persone detenute?
“Le criticità sono molte e note: sovraffollamento, carenza di personale, insufficienza dei servizi sanitari e psicologici. Ma la vera emergenza è culturale. Serve una riflessione profonda sul senso della pena e sul ruolo del carcere. Punire senza offrire possibilità di cambiamento non produce sicurezza, produce esclusione. La prevenzione della recidiva passa per l’istruzione, il lavoro, la salute mentale, il sostegno alle famiglie. Il carcere deve diventare un luogo in cui si impara a tornare nella società, non a restarne fuori. Un Paese civile si misura da come tratta chi ha sbagliato, da quanto crede nel recupero e nel rispetto dei diritti fondamentali anche nei contesti più difficili. La legalità non è punizione: è prevenzione, equilibrio e umanità”.
Guardando al futuro, quale ritiene sia la sfida più grande per chi, come lei, opera nella tutela dei diritti e della giustizia?
“La sfida è ricostruire fiducia e responsabilità collettiva. La giustizia non è un tema solo dei tribunali, ma della società. Dobbiamo riportare al centro il valore della prevenzione, dell’ascolto, della formazione. Ogni volta che una violenza viene evitata, che un detenuto trova una nuova strada, che una donna riesce a denunciare prima che sia troppo tardi, la giustizia compie la sua missione più alta. Chi opera in questo campo deve saper tenere insieme competenza e coscienza. Perché il diritto, senza umanità , rischia di diventare un guscio vuoto. E io credo, invece, che la giustizia debba restare una forma di cura: per la società, per le persone, per la nostra stessa democrazia. Non è infallibile ed in questi giorni più che mai, penso alle donne che sono riuscite a denunciare in tempo ed a quelle che comunque ce l’hanno fatta, ai loro figli, alle loro vite che si sono riprese. Parlare più di loro affinché chi ancora non ha deciso, scelga nel modo più giusto : allontanarsi dalla violenza credendo in un’alternativa sicuramente migliore”.
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