Esteri

Kishida convoca le sette sorelle dei chip La via giapponese alla sfida del futuro

di Giovanni Vasso -

FUMIO KISHIDA PRIMO MINISTRO DEL GIAPPONE


C’è una costante nella storia del Giappone. Tokyo sa imparare dai suoi errori, sa trarre il meglio dalle piccole e grandi lezioni in cui s’è imbattuta. Da quando l’ammiraglio americano Matthew Perry, a metà del diciannovesimo secolo, ne forzò i porti costringendolo a uscire dal suo isolamento, il Paese del Sol Levante ha saputo confrontarsi con gli altri, cogliere gli insegnamenti e affermarsi come grande potenza economica e industriale. L’ultima sfida, per il governo nipponico, è confermarsi all’altezza della propria storia. E questa è una sfida è seria. È quella dei chip, mercato che il Giappone letteralmente dominava negli anni ’80, e dell’energia. L’industria giapponese deve trovare una strada per garantirsi un futuro. Dopo il Covid, c’è stata la crisi energetica innescata dalla guerra tra Russia e Ucraina. E, soprattutto, le tensioni sempre più palpabili nello scenario del Sud est asiatico, tra i timori dell’escalation tra Cina e Taiwan, con la Corea del Nord “solita” variabile impazzita dello scacchiere regionale. A cui si aggiunge, come un fulmine a ciel sereno, la scelta iper-protezionista degli Stati Uniti di “richiamare” in patria i maggiori produttori tech, green e digitali. La lezione da imparare è facile: se il Giappone vuole continuare a essere una potenza industriale, una guida tecnologica per il mondo intero, non può più permettersi di restare senza materie prime e beni necessari, come i semiconduttori. Così come è accaduto nei mesi scorsi, con la clamorosa crisi dei chip.
Così, il premier giapponese Fumio Kishida ha suggellato una prima alleanza con la Gran Bretagna. Che non produce chip ma ospita la sede legale di alcune delle più importanti imprese di progettazione di materiale hitech, e di nuovissima generazione. Che consentono di risparmiare energia. Il passo più importante, però, il capo del governo nipponico l’aveva fatto qualche giorno fa. Quando ha riunito, intorno a un tavolo, i dirigenti delle “sette sorelle” del chip. E cioè la taiwanese Tmsc, la coreana Samsung Electronics, i belgi di Imec e gli americani di Intel, Micron Technology, Applied Materials e Ibm. Ha prospettato guadagni favolosi: il governo punta a triplicare, entro il 2030, le vendite interne di semiconduttori e affini portando il volume d’affari a 15 trilioni di yen, poco meno di 110 miliardi di dollari. In cambio, Kishida ha chiesto alle “sette sorelle” di investire in Giappone. Dai rumors, pare che la proposta abbia ingolosito già Imec, che potrebbe aprire un centro di ricerca mentre Samsung punterebbe a inaugurare uno stabilimento a Yokohama. Dall’approvvigionamento di chip e semiconduttori dipendono le strategie economiche del Giappone. Dagli armamenti fino all’aeronautica e la sicurezza, passando per l’informatica e per il digitale. Il grave errore giapponese è stato quello di perdere la posizione di assoluta preminenza nel campo acquisita negli anni ’80 a favore dei “competitor” coreani e taiwanesi. Tokyo non vuole ripeterlo. Non se lo può permettere se vuole restare una potenza mondiale capace di tener testa a quei vicini, sempre più ingombranti, dei cinesi.
Ma il Sol Levante ha anche un’altra, grande, sfida da affrontare. Quella della transizione energetica in una delle industrie che, nel corso degli anni, hanno contribuito a fare del Paese un gigante industriale. Il Giappone non ha la minima intenzione di seguire l’elettrificazione dell’automotive. È improponibile anche solo pensare che Tokyo possa mettersi in una posizione di potenziale dipendenza da Pechino.
Pertanto, il governo cerca e incentiva nuove strade per rispondere alle sfide globali. Dalla necessità è nata una joint-venture che riunirà in un’unica struttura di ricerca tutte le case moto e automobilistiche più grandi del Paese. Honda, Suzuki, Yamaha e Kawasaki sono state autorizzate ad avviare Hyse, il progetto che punta a creare motori sviluppati a idrogeno. Per il momento, i propulsori saranno studiati per essere montati sulle moto, sui veicoli di piccole dimensioni e sui droni. L’obiettivo, però, è quello di testarli per le automobili. E, con questo proposito, allo sforzo ingegneristico si è unita anche Toyota.


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