Esteri

La guerra dei chip: Xi boccia Micron E Biden richiama in patria i Big Tech

di Giovanni Vasso -


Prosegue la guerra digitale tra Usa e Cina. Questa volta è Pechino a battere un colpo. Il Dragone, infatti, ha bandito “per ragioni di sicurezza” l’utilizzo dei chip dell’azienda statunitense Micron che, se definitivamente estromessa dal mercato cinese, rischia di perdere fino a un decimo del suo intero fatturato. Si tratterebbe di un tracollo da circa 3,8 miliardi di euro. Contestualmente, mentre negli Stati Uniti prosegue la crociata anti Tik Tok, prosegue il reshoring digitale americano. Adesso Applied Materials, una delle sette sorelle dei semiconduttori, annuncia investimenti da quattro miliardi di dollari in California.
Nel fine settimana, la guerra dei chip tra Stati Uniti e Cina ha raggiunto un nuovo livello. La commissione cinese per la sicurezza informatica ha annunciato, con una nota ufficiale, che i prodotti della Micron avevano fallito i test imposti dalle autorità. Secondo i rilievi, i chip americani “hanno potenziali problemi di sicurezza della rete relativamente seri, che rappresentano un grave rischio per la sicurezza della catena di approvvigionamento delle infrastrutture informatiche critiche della Cina e influenzano la sicurezza nazionale cinese”. Per queste ragioni, la commissione ha chiesto agli “operatori di infrastrutture informatiche critiche in Cina” di “smettere di acquistare prodotti Micron”. Stando alle prime analisi, Micron deriva, dai commerci asiatici, il 10 per cento del suo intero fatturato che sfiora i 31 miliardi di dollari. Dovesse perdere l’approdo cinese, per l’azienda americana sarebbe una iattura. La pensano così anche gli investitori che, nel mercato azionario Usa, hanno visto scendere di svariati punti percentuali il valore delle azioni del colosso Usa dei semiconduttori. E, contestualmente, hanno registrato importanti passi in avanti dei diretti competitori, a cominciare dai coreani di Samsung.
Micron prova a resistere e si è detta pronta a collaborare con le autorità cinesi. La Cina, nel mercato dei chip, rappresenta un autentico top player. Nel 2021, infatti, Pechino ha speso in semiconduttori più di quanto ha abbia fatto con il petrolio, investendo qualcosa come 430 miliardi di dollari. Ma le autorità asiatiche devono fare i conti con la nuova politica ultraprotezionistica degli Stati Uniti d’America. Che, nei confronti del Dragone, agisce su due fronti concentrici. Il primo, e forse più importante, riguarda il ban all’export di materiale tecnologicamente avanzato. Gli americani non vogliono offrire ai rivali cinesi il meglio della loro tecnologia. Il motivo è semplice: Washington teme che la Cina possa diventare una potenza capace di contendere agli Usa il primato mondiale persino su un settore, quello digitale, in cui gli Stati Uniti non hanno mai avuto rivali. Il caso paradigmatico, passando dall’hardware al software, è quello di Tik Tok, il social cinese che sta letteralmente conquistando milioni di persone in Occidente a discapito dei big del settore, Meta e Facebook in testa.
La seconda ragione è strettamente correlata alla scelta di Biden di richiamare in patria i big del settore tech. Anni di delocalizzazione, infatti, hanno insegnato ai funzionari americani che le aziende locali, soprattutto quelle cinesi, imparano in fretta cosa e come produrre. L’Occidente ha avviato una stagione di reshoring, cioè gli Stati Uniti stanno richiamando, con il miele degli incentivi, i loro campioni tecnologici e green a produrre in patria. L’ultima, solo in senso cronologico, ad accettare l’invito giunto dalla Casa Bianca è Applied Materials. Si tratta di una delle sette sorelle dei semiconduttori. Applied, o meglio il governo americano, ha annunciato che investirà fino a quattro miliardi di dollari per avviare la produzione di materiale ultratecnologico in California. Perciò la vicepresidente Kamala Harris si recherà, nei prossimi giorni, a Sunnyvalley, dove sorge la sede del colosso, per formalizzare l’intesa. Che, ovviamente, si basa sui sussidi garantiti dal Chips Act americano. Che, in pratica, rappresenta la branca “tech” dell’Inflaction Reduction Act. L’obiettivo è riportare negli Usa la produzione americana di semiconduttori, precipitata dal 37% su scala mondiale del 1990 al 12% attuale. Per farlo, la Casa Bianca investirà 250 miliardi di dollari in cinque anni. Per farsi un’idea dell’enormità delle cifre, basti pensare che l’Unione europea, per il “suo” Chips Act, prevede di investirne 43 in sette anni. Con il sogno (non si può parlare, realisticamente, di obiettivo) di portare la produzione Ue di chip su scala mondiale al 20% dall’attuale 9%.
I semiconduttori sono di fondamentale importanza in un mondo che si fa sempre più digitale. Lo hanno ammesso i sette grandi che, al G7 di Hiroshima in Giappone, hanno parlato (oltre che di Ucraina) proprio di chip e delle strategie di produzione. Soprattutto ora che Taiwan è diventata un fronte caldo di tensione e scontro internazionale. Sui materiali e sulla tecnologia si giocano le grandi guerre di oggi.


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