Editoriale

La parola ai cittadini

di Tommaso Cerno -


Premierato. Semipresidenzialismo. Alla francese. All’americana. Il ruolo del Colle. Quello del Parlamento. Ci siamo già persi nelle frasi fatte, prima ancora di capire se l’Italia ha bisogno o no di una riforma della Costituzione dopo quasi 80 anni. Stiamo già litigando sul fondamento della Repubblica. E questo significa che non ci sentiamo all’altezza delle regole del gioco a cui giochiamo. Perché è vero che la Costituzione italiana fu scritta in un momento di grande altezza morale e da rappresentanti del Paese che avevano storie e profili da grandi statisti, ma è anche vero che non tutto ciò che all’epoca fu deciso oggi funziona ancora, così come non è vero che l’Italia non sia in grado di scegliere se discutere e riflettere di aggiornare quella Carta senza stravolgerla e rendendola più adatta alle aspettative degli elettori e dei cittadini di oggi. Come è successo in Francia, dove la Costituzione ha subito profonde modifiche e il Paese ne ha guadagnato.

Come succede negli Stati Uniti dove le più grandi riforme del progresso culturale e politico sono state affermate attraverso emendamenti, cioè modifiche, alla Carta costituzionale su cui si fondava l’unione fra gli Stati d’America. Da noi non succede mai. Da noi è sempre una guerra, nel nome di grandi valori, per non cambiare mai. Come se ammettessimo che di fronte ai Padri costituenti nessuno dei figli è in grado di reggere al confronto. Ma è proprio in questo errore che sta l’arretratezza della nostra classe politica. Perché quei padri ci hanno insegnato non tanto ciò che c’è scritto nella Carta, ma quale fu il metodo scelto per scriverla. Un metodo che prevedeva uno scontro e un confronto dialettico, a tratti anche aspro, frapposizioni perfino inconciliabili, che portarono tuttavia alla costruzione di un’anima su cui il Paese ha potuto veder crescere il suo corpo, politico, economico, sociale. Il vulnus adesso è l’elezione diretta. Cioè il fatto che i cittadini scelgano chi sarà il Presidente del Consiglio.

La sinistra è corsa sulle barricate e grida all’attentato contro il Parlamento. Ed è ovvio che se una tale riforma che toglie al Presidente della Repubblica il compito di scegliere chi guiderà il governo non fosse accompagnata da compensazioni adeguate rischierebbe di restare un’idea, perché nessuno la voterebbe davvero in Parlamento, è anche vero che nella Seconda Repubblica ci siamo abituati a leggere il nome del candidato premier sul simbolo della scheda elettorale. E questo ha dato l’impressione ai cittadini che già stessero scegliendo il primo ministro. Questa mutazione non legale, non giuridica ma antropologica ha generato avversione da parte degli italiani verso governi figli solo delle logiche di Palazzo, i cosiddetti governi tecnici, di emergenza nazionale, i governi del Presidente. Tutte frasi vuote del politichese che servivano a giustificare una maggioranza diversa da quella che era uscita dalle urne.

Anche questo è un attentato alla Costituzione e al Parlamento. Ed è curioso che venga proprio dal Pd, visto che l’unica legislatura della seconda Repubblica caduta in anticipo proprio per le dimissioni del Presidente del Consiglio che era stato indicato non certo scelto dai vincitori, gli elettori del centro-sinistra, Romano Prodi, dimostrarono che non si poteva per la seconda volta scegliere per Palazzo Chigi un leader che non fosse passato per le urne. Tutto questo la Costituzione non lo esplicita e non lo prevede, ma come vedete è diventato gergo comune. E questo vuol dire che qualunque sarà l’esito di questa riforma, gli italiani di oggi hanno il dovere di rimettersi a discutere e di capire se si può davvero trovare una nuova forma istituzionale che rispetti i principi della nostra Carta ma la aggiorni ai desideri e alle abitudini ormai consolidate di milioni di cittadini elettori, quel popolo italiano nel nome del quale si esercita l’attività politica.


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