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Cronaca

L’assassino di Erika Preti torna a casa, il caso Fricano

di Francesco Tiani -


La scarcerazione di Dimitri Fricano, condannato a trent’anni di reclusione per l’omicidio della compagna Erika Preti nel 2017 e oggi posto agli arresti domiciliari per gravi condizioni di salute, è uno di quei casi che riportano al centro del dibattito pubblico una frattura ormai evidente, lo scarto tra ciò che è conforme alla legge e ciò che la società riesce ad accettare. Premesso, che sul piano strettamente normativo e legale, la decisione è irreprensibile. L’ordinamento prevede che, in presenza di patologie incompatibili con la detenzione, l’esecuzione della pena possa avvenire presso il domicilio. Non si tratta di un privilegio, né di un arbitrio, ma dell’applicazione coerente di un principio evoluto della civiltà giuridica, lo Stato non può trasformare la pena in sofferenza ulteriore e inutile, neppure di fronte al più grave dei delitti. Eppure, proprio questa linearità giuridica genera una tensione profonda. La collettività non percepisce il caso Fricano come una semplice vicenda di esecuzione penale, ma come un trauma simbolico. È difficile accettare che un condannato per femminicidio rientri a casa, seppure sotto stretto controllo, in un ambiente domestico. La dimensione emotiva, tanto più sensibile in una società che giustamente ha elevato la violenza di genere a tema prioritario, finisce per disarticolare la razionalità giuridica, rendendola incomprensibile. Così, la misura appare ai non addetti ai lavori come una stonatura di fondo, un passo indietro rispetto al riconoscimento del valore della vita e, in particolare, di quella delle donne. In situazioni come questa la fiducia nella giustizia si incrina, erodendo ciò che resta nel comune sentire dei cittadini, per l’antico prestigio della magistratura e del rispetto per la legge. Il cittadino comune, osservando decisioni così distanti dalla propria sensibilità, finisce per sovrapporre la funzione giudiziaria a quella politica, interpretandole entrambe come esito di strategie, convenienze e giochi di equilibrio che superano le prescrizioni oggettive che dispone la legge. “Ma questa è la democrazia”, si dirà. È vero, ma il pluralismo delle opinioni appartiene alla dinamica sociopolitica, non all’amministrazione della giustizia, che dovrebbe essere sottratta a ogni sospetto di discrezionalità impropria. Quando la giustizia viene percepita come un terreno di contesa o di incoerenza, la si colloca sullo stesso piano della lotta per il potere tra partiti. È ciò che sta accadendo nella campagna referendaria per la separazione delle carriere dei magistrati. Proprio fatti come il caso Fricano, nonostante la corretta interpretazione delle norme, contribuiscono a minarne il fondamento di credibilità. La vicenda illumina un paradosso strutturale, la correttezza formale non basta. Un provvedimento pienamente legittimo può comunque apparire dissonante, generando un senso di precarietà che attraversa l’intero corpo sociale. La giustizia, per essere credibile, ha bisogno non solo di applicare correttamente e con equilibrio norme giuste, ma di far percepire la coerenza tra il sistema penale, la domanda diffusa di sicurezza e il riconoscimento del dolore delle vittime. In assenza di questa sintonia, ogni verdetto rischia di trasformarsi in un ulteriore varco nella distanza tra istituzioni, giustizia e cittadini. Non a caso Montesquieu ricordava: «Non c’è libertà se il potere giudiziario non è indipendente, ma non c’è giustizia se esso non è anche riconosciuto come tale».


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