Le Borse salgono in tutta Europa ma è martedì nero per il comparto. Flop Leonardo (-10%)
La pace si addice agli affari. Ma non a tutti. La speranza di un accordo che ponga fine alle ostilità tra Russia e Ucraina trascina verso l’alto gli indici europei ma, contestualmente, fa sprofondare i titoli del comparto difesa. E spinge, ulteriormente, verso il basso le quotazioni del petrolio. Lo scenario economico e finanziario è semplice: in Europa le Borse spingono ma restano caute. Il segno più, però, è il leit motiv della giornata: sale Milano (+0,89%), e salgono pure Francoforte (+0,46%), Parigi, migliore d’Europa (+1,21%) e Londra (+0,37%). Scendono però i titoli delle aziende della difesa. Capitanate da Leonardo che ieri, a Milano, ha perso poco più del 10% del suo valore azionario fermando le perdite al -10,1%. Stessa sorte per Fincantieri che accusa perdite a doppia cifra di pari entità: -10,1%.
Ma che non si tratti di un caso isolato lo dimostra pure la pessima performance di Rheinmetall al Dax di Francoforte. L’azienda tedesca ha perso poco più del 5 per cento del suo valore e, tutto sommato, ha retto. Già, perché Hensoldt AG, società specializzata nei sistemi elettronici di difesa, ha accusato perdite pari se non superiori a quelle che hanno caratterizzato i titoli italiani sfiorando il 10% di calo. Non va granché meglio a Renk che accusa perdite intorno al 9%.
Le conseguenze della pace (eventuale)
Mal comune, mezzo gaudio: Thales, in Francia, cede intorno al 4% (per la precisione il 3,73%). A Parigi finiscono in rosso pure Dassault Aviation (2,7%) e Airbus (-0,97%). Finita qui? Macché. Il comparto perde quota pure nel Regno Unito e Bae Systems perde poco più del tre e mezzo per cento del suo valore. Non è andata granché meglio a Rolls Royce, che ha un’attivissima divisione dedicata alla difesa, che ha perduto il 2,08%. È andata pure peggio a Saab Ab, in Svezia, che solo con uno scatto di reni sul finale di contrattazione ha potuto limitare le perdite a poco più del 4 per cento. C’è poco, però, da intonare de profundis.
Analisi e controanalisi
L’analisi è molto meno catastrofica di quanto parrebbe. Ed è semplice. I titoli del comparto Difesa, nel corso degli ultimi anni di guerra, hanno registrato rialzi a dir poco interessantissimi. S’è parlato di guerra alle porte dell’Europa, s’è parlato di un piano di riarmo. Fisiologico che il valore delle azioni aumentasse. Così come è stato altrettanto fisiologico il rimpallo di ieri sui mercati europei. Si parla ancora di riarmo ma la prospettiva di una pace in Ucraina potrebbe raffreddare i rally in Borsa. Ma rimane a dir poco lampante la necessità, per i Paesi dell’Unione (e non soltanto loro…), di dover lavorare se non al riarmo quantomeno a rimpolpare gli arsenali svuotati a favore dell’alleato ucraino. C’è, però, la questione della proposta che il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky avrebbe presentato a Trump. Kiev vorrebbe comprare armi made in Usa per 100 miliardi di dollari utilizzando, per farlo, finanziamenti dall’Unione europea. Un fatto che potrebbe rompere, e non poco, le uova nel paniere alle aziende concorrenti Ue. E su cui, però, da Bruxelles ci si è affrettati a smentire: “La proposta non è stata discussa durante l’incontro di ieri tra i leader Ue e i presidenti Trump e Zelensky”, ha detto chiudendo a ogni tipo di ulteriore commento la portavoce della Commissione europea Arianna Podestà.
Non solo armi
Ma non sono soltanto gli armamenti a cedere terreno nel martedì nero del comparto Difesa in Europa. C’è pure il petrolio che continua, senza soluzione di continuità, a perdere quota. Ieri il barile di greggio era quotato, sull’indice West Texas Intermediate, a poco meno di 62 dollari (per la precisione 61,93), in ulteriore calo dell’1,23%. Il brent, contestualmente, ha perduto lo 0,61% e veniva via a 65,17 dollari al barile. Siamo pericolosamente vicini al punto di breakeven. E forse è stato (anche) per questo se il Segretario Usa al Commercio, Scott Bessent, ha voluto schiaffeggiare l’India accusandola di “trarre profitto” dall’acquisto di petrolio russo che poi viene rivenduto come “prodotto”. In pratica, Bessent ha puntato il dito su Nuova Delhi accusandola di essere la capitale delle “triangolazioni” grazie a cui le aziende energetiche russe bypasserebbero i blocchi e le sanzioni. Parole nemmeno troppo originali ma che arrivano puntuali dopo l’incontro di Anchorage in Alaska dove, stando a diversi rumors, Trump e Putin avrebbero parlato (anche) di petrolio e della possibilità di congelare almeno una parte delle sanzioni. Una “pace” commerciale che alla Casa Bianca non conviene fino in fondo.