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Lluís de Prades, il vescovo ritrovato. Un’intervista tra arte, storia passata e prospettiva di identità europea attuale

di Priscilla Rucco -


Dopo secoli di silenzio, la figura di Lluís de Prades – vescovo catalano, uomo politico, committente colto – torna al centro dell’attenzione grazie al libro “Lodovicus quondam maioricensis episcopus. Lluís de Prades da Mallorca a Subiaco al tempo dello scisma d’Occidente” a cura di Roberta Cerone e Joan Domenge I Mesquida. La presentazione del testo è fissata per sabato 18 ottobre presso l’Abbazia di S. Scolastica a Subiaco. Ne parliamo con la Professoressa Roberta Cerone, associata di Storia dell’Arte Medievale Sapienza Università di Roma.

Professoressa come nasce l’idea di dedicare un convegno e un volume alla figura di Lluís de Prades?

“L’idea nasce quasi per caso, durante le giornate di studio sull’architettura del Trecento organizzate dal Politecnico di Torino nel 2019. In quell’occasione ci siamo accorti che, nonostante la cappella degli Angeli a Subiaco fosse già nota per la sua qualità e originalità, mancava un’indagine approfondita sul suo committente. I pochi riferimenti a Lluís de Prades nella storiografia non rendevano, però, giustizia al suo ruolo. Così è iniziato un dialogo tra storici, storici dell’arte, filologi e archivisti, che si è sviluppato sempre più nel tempo fino a diventare un progetto vero e proprio. La realizzazione è stata complessa, ma anche necessaria: c’era bisogno di tornare a lavorare su progetti culturali ambiziosi, e questo ne era uno completamente nuovo”.

Chi era davvero Lluís de Prades e perché è importante riscoprirlo oggi?

“Lluís de Prades era un alto prelato, appartenente a una delle famiglie più prestigiose del Regno d’Aragona. La sua biografia era sorprendentemente lacunosa, anche nella storiografia spagnola stessa. Grazie al contributo dello studioso Eduard Juncosa Bonet, siamo riusciti a ricostruire con maggior precisione la sua carriera ecclesiastica e le sue relazioni politiche. Non era solo un uomo di Chiesa, ma anche un diplomatico, un mediatore e un committente “consapevole”. La cappella di Subiaco – che gli è attribuita – rivela una visione artistica e spirituale fortemente personale. Studiare de Prades oggi, significa riscoprire il volto colto, ricercato e complesso della spiritualità catalana del Trecento, ma anche capire come si muovevano le reti e i collegamenti di potere tra la Spagna e l’Italia in pieno Scisma d’Occidente”.

Qual è il legame tra Subiaco, la cappella degli Angeli e la Corona d’Aragona?

“Subiaco, e in particolare l’abbazia di Santa Scolastica, non era certo un luogo periferico. Era un centro culturale e spirituale strategico. La cappella degli Angeli, che si distingue per qualità pittorica e intensità devozionale, è il luogo simbolico per eccellenza in cui questo legame si concretizza e si percepisce. Il ciclo pittorico va letto ed interpretato alla luce della personalità del committente: è una sorta di testamento spirituale e culturale. Collegare l’opera al contesto della Corona d’Aragona ci ha permesso poi di ampliare la prospettiva restituendo un respiro internazionale a Subiaco stessa. In un momento di grande frammentazione politica e religiosa come quello dello Scisma d’Occidente, de Prades sceglie di lasciare un segno eterno tra unità e bellezza”.

Cosa ha significato mettere insieme studiosi da ambiti e Paesi diversi?

“È stata la vera forza del progetto. Abbiamo unito un mix di competenze internazionali storiche, artistiche, archivistiche e filologiche. Il confronto è stato sempre aperto, alimentato da scoperte d’archivio e intuizioni interpretative e culture a confronto. Il sostegno della Sapienza, dell’Abbazia e del Ministero della Cultura, in particolare della Direzione generale dei Musei del Lazio, è stato decisivo per la realizzazione di un progetto così ambizioso. Questo lavoro di rete ha generato una riflessione solida e concreta che ci ha permesso di far emergere un personaggio come de Prades, fino a oggi rimasto ai margini delle narrazioni ufficiali. Il nostro obiettivo non era solo accademico: volevamo offrire strumenti per ripensare l’identità europea a partire dalle sue radici culturali comuni”.

Cosa resta oggi di questa ricerca e perché dovremmo occuparci di storia medievale nel presente?

“Resta sicuramente un volume ricco di dati, di documenti e di analisi attenta e veritiera, ma soprattutto è la realizzazione di un libro che unisce le diversità. Parlare di Lluís de Prades oggi significa parlare di un’Europa che in passato si è costruita attraverso i ponti culturali, non alzando i muri come attualmente accade. Significa riflettere sull’importanza del passato, sul ruolo della spiritualità come linguaggio universale e condiviso e sulla necessità di custodire la memoria dei luoghi tramandando il passato per non farlo perdere. La storia medievale è una chiave di lettura più che mai attuale per il nostro tempo, ma spesso viene sottovalutata. “Secoli bui” è un’etichetta che non corrisponde al vero:  fu un’epoca fluida, ricca di relazioni culturali, il contrario di quello che si pensa oggi. E figure come de Prades possono aiutarci a immaginare nuovi modi di abitare il passato per costruire il futuro attraverso la cultura”.


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