Esteri

L’Ue non ha una strategia autonoma nel conflitto. Perché l’Italia sbaglia a uscire dalla Via della Seta

di Redazione -


di FRANCESCO MARINGIÒ

Il quadro politico è in pieno movimento e l’Europa è il teatro dove si dispiegano incontri diplomatici di primissimo piano, i cui esiti avranno un impatto decisivo sugli equilibri mondiali a medio termine.
Zelensky è a Roma e le indiscrezioni raccontano di una iniziativa presa dalla sponda vaticana del Tevere, più che l’altra, a conferma di quanto detto dal Papa di ritorno dall’Ungheria. Ma tra i grandi sponsor della “soluzione politica” al conflitto non c’è solo il Vaticano: anche la Cina ha deciso di giocare la sua partita ed in questi giorni ha inviato in Europa uomini chiave della sua diplomazia.
Wang Yi, direttore della Commissione Affari esteri del Partito, ha incontrato a Vienna il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, riaprendo così ai massimi livelli un canale di comunicazione tra le due potenze, giunto ad uno dei punti più bassi sin dal 1972. Mentre si è concluso il tour europeo del ministro degli esteri Qin Gang, che ha visitato Germania, Francia e Norvegia. E domani Li Hui sarà inviato speciale in Russia e Ucraina. Li, uomo di lunghissima esperienza sul campo a Mosca, sin dai tempi dell’Urss, visiterà anche Polonia, Francia e Germania.
Questi incontri avvengono tutti in Europa, che tuttavia è completamente incapace di giocare una sua autonoma partita strategica e diplomatica, costruendo una propria posizione in una fase del mondo caratterizzata da una gigantesca transizione egemonica tra la potenza in declino (gli Usa) e quella in ascesa (la Cina). Una transizione profondamente diversa da quelle del passato, ma pur sempre capace di disegnare un nuovo assetto degli equilibri del mondo. Il continente europeo è tutto un florilegio di posizioni differenziate e contraddittorie che, agli occhi dei cinesi, diventano un vero e proprio enigma.
Se Macron ha parlato di “autonomia strategica”, altre sono state le reazioni e le prese di posizione, che Pechino non ha mancato di notare. Come per esempio quelle di Josep Borrell, che ha dipinto l’Europa come un giardino ed il resto del mondo una giungla che “potrebbe invadere il giardino”. O ancora le posizioni di coloro che, contro l’autonomia strategica dell’Europa, chiedono “più America in Europa”, come la Polonia.
Di fronte ad una guerra che ha ridotto a zero la capacità di proiezione strategica dell’Europa, con pesanti condizionamenti sulla spesa pubblica e di bilancio dei singoli Stati, nel vecchio continente non riesce ad emergere una linea maggioritaria che ne salvaguardi gli interessi strategici e non comprometta ulteriormente la sua economia. Si assiste infatti ad una dialettica serrata tra un partito informale degli oltranzisti che spingono in direzione di una nuova guerra fredda ed uno del dialogo, che lavora per una gestione pacifica della competizione globale. Una dialettica che attraversa e spacca gli stessi Paesi, come è evidente in Germania tra un cancelliere che vola a Pechino per salutare la rielezione di Xi Jinping ed il suo ministro degli esteri che descrive la Cina come un “Paese offensivo ed aggressivo”. E tutto questo, mentre la Cina è impegnata a promuovere la pace.
E qui tocchiamo il nerbo di tutta la vicenda. Non giriamoci attorno: è sotto gli occhi di tutti il successo diplomatico di Pechino nella mediazione del riavvicinamento tra Arabia Saudita ed Iran, impensabile solo pochi mesi fa. La proposta di pace cinese in 12 punti per il conflitto ucraino, subito bocciata dagli Stati Uniti, non ha ricevuto invece alcun rifiuto né da Mosca, né tanto meno dall’Ucraina, divenendo nei fatti una delle poche (se non l’unica) vie d’uscita politiche alla crisi in corso. E sono sempre più le analisi che mostrano come la politica delle sanzioni abbia fallito nel suo intento di colpire Mosca, mentre ferisce l’Europa ed arricchisce l’America.
A fronte di ciò, le ragioni del sostegno al processo di pace cinese si rafforzano. Ed il Paese che più di tutti avrebbe potuto giocare un ruolo è paradossalmente proprio l’Italia. Un Paese del blocco occidentale, schierato su una linea atlantica, ma firmataria con la Cina del famoso Memorandum sulla Via della Seta. Ed invece la discussione è completamente rovesciata. L’Italia è stata il Paese d’onore della Fiera dell’import-export di Hainan (un omaggio di Xi Jinping fatto alla Meloni nel vertice di Bali) e, proprio in questi giorni, il dibattito sull’uscita dal Memorandum impazza su tutti i giornali italiani e stranieri. E tutto questo avviene mentre l’Istat registra un aumento dell’export italiano verso la Cina che raggiunge la cifra significativa di +26,3% nell’ultimo mese, ed una tendenza su base annua che segna un’incredibile crescita del +131,3%.

Proviamo invece a guardare le cose da questa prospettiva: se avesse ragione Kissinger, ossia che a breve ci saranno “negoziati veri e propri” sulla crisi ucraina, mediati dalla Cina, cosa ne sarebbe degli alfieri della linea dello scontro e dello stralcio del Memorandum? E se i negoziati avvenissero proprio in Europa? Ne varrebbe davvero la pena operare lo sgarbo diplomatico con Pechino ed isolarci da chi in Europa media la pace? L’attivismo politico di questi giorni fa sperare in un cambio di scenario concreto e la saggezza imporrebbe cautela e lungimiranza, non scelte avventate e propagandiste.

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