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Pronto Soccorso, sanitarie nel mirino: il 73% delle aggressioni è contro le donne

Sempre più violenza in corsia, parla il professor Alessandro Riccardi presidente SIMEU

di Giovanni Ierfone -


Boom di aggressioni, denuncia d’ufficio disattesa, personale in fuga. Riccardi: “Serve un piano nazionale. Non militari, ma sicurezza, formazione e tutele concrete”.

Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile di Brescia. Un uomo, in stato di agitazione e con segni evidenti di abuso di sostanze, ha aggredito un’infermiera di 34 anni dopo che gli veniva negato l’accesso prioritario al triage. Dopo averle urlato contro, l’ha afferrata per un braccio e strattonata con violenza.

E’ il più recente di una lunga serie di episodi a danni di medici, infermieri e personale sanitario all’interno dei Pronto Soccorso. Negli ultimi 12 mesi le aggressioni contro gli operatori sanitari sono state18mila, in aumento del 38% in cinque anni. Secondo i dati della SIMEU, la Società Italiana Medicina di Emergenza Urgenza, il 42% del personale, per la maggioranza donne, denuncia di essere stato almeno una volta vittima di aggressioni fisiche o psicologiche.

Sono numeri sottostimati per mancanza di denuncia – spiegano dalla Società – ma possiamo affermare che il 100% degli operatori in PS e 118 abbia subito almeno un episodio di violenza, quanto meno verbale”. Sono numeri che superano ogni soglia di tollerabilità. Il fenomeno è di ampio dominio pubblico, ma ancora sottovalutato nei suoi contorni specifici. Uno di questi riguarda la netta sproporzione di genere.

Il 73% delle vittime di violenza nei PS è donna. Una percentuale che riflette sia la prevalenza femminile nei ruoli sanitari sia una specifica esposizione a dinamiche di sopraffazione. Nei reparti sovraffollati, tra pazienti in attesa, familiari sotto stress, persone in stato di alterazione psichica o da abuso di sostanze, la figura dell’operatrice sanitaria diventa spesso bersaglio diretto di tensioni e frustrazioni.

Secondo il sindacato Nursing Up, le richieste di assistenza legale da parte di infermiere e OSS vittime di aggressioni sono aumentate del 22% nell’ultimo anno. Il 74,7% delle aggressioni è di tipo verbale (minacce, insulti, urla), spesso a sfondo sessista o razzista. Il restante 25,3% comprende forme fisiche, più o meno gravi, come spinte e strattoni, fino a tentativi di strangolamento o all’uso di oggetti contundenti. Le testimonianze recenti parlano di infermiere afferrate per il collo da familiari di pazienti, medici aggrediti durante i turni notturni, fisioterapiste insultate e minacciate nelle corsie o a domicilio.

Il Nord Italia raccoglie il 63% degli episodi denunciati, con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in testa. Nel Sud, la quota si ferma al 26%, ma con livelli di sotto-denuncia elevati. Il Centro pesa per l’11%, con un trend in crescita soprattutto nelle periferie urbane. Ma il fenomeno resta in gran parte sommerso. Nursing Up e Amsi stimano che oltre il 70% delle aggressioni non venga denunciato. Molti operatori scelgono di non parlare per timore di ritorsioni, sfiducia nella tutela legale o nella percezione diffusa che “faccia parte del lavoro”.

Aggressioni alle sanitarie, Riccardi: “La legge non viene applicata in modo efficace”

Una “normalizzazione della violenza”, che contribuisce a silenziare il problema. Eppure, un piano nazionale esiste, spiega il professor Alessandro Riccardi (nella foto), presidente SIMEU. “Esistono la legge e diverse strategie locali. Il problema è che la legge non viene applicata in modo efficace. Le aggressioni ai sanitari prevedono la denuncia d’ufficio, ma spesso non viene attivata. Alcune Regioni, come Piemonte e Liguria, stanno introducendo norme che permettono alle aziende sanitarie di denunciare direttamente, senza lasciare l’onere all’operatore. Questo è cruciale, perché anche una semplice minaccia verbale mina il rapporto di fiducia tra medico e cittadino. Inoltre, va chiarito che i lunghi tempi di attesa non dipendono dai medici, ma da una carenza strutturale di posti letto”.

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Servono quindi un’organizzazione più efficace e veri strumenti di prevenzione. “In alcune realtà, come Bologna è stato introdotto un pulsante anti-violenza. Non siamo favorevoli alla militarizzazione degli ospedali, ma va prevista una rete di allerta precoce, supporti specifici per le operatrici e la presenza costante di un posto di polizia attivo 24 ore su 24. Il Triage è l’area più esposta. In presenza di pazienti aggressivi o alterati, va riconosciuta anche un’indennità di rischio. La violenza, anche solo verbale, non può essere accettata”.

La situazione nei Pronto Soccorso ha ripercussioni dirette anche sulla formazione. La specializzazione in Medicina di emergenza urgenza fatica ad attrarre nuovi medici. Nel 2024, solo il 29,8% dei posti disponibili è stato coperto. L’Anaao-Assomed e l’Associazione liberi specializzandi indicano quattro criticità principali: carenza di personale (29%), boarding (26%), accessi impropri (26%) e aggressioni (19%). Il boarding, ovvero il blocco dei pazienti in attesa di ricovero, è particolarmente critico: ogni paziente fermo in PS genera ritardi medi di 12 minuti sugli accessi successivi, con un rischio di decesso che nei casi più gravi passa dal 2,5% al 4,5%.

Secondo Riccardi, “è fondamentale che venga riconosciuto il valore della nostra specializzazione. Servono stipendi adeguati, distinti da quelli di altre branche mediche, perché il nostro è un lavoro specifico, svolto solo nei Pronto Soccorso. È un’attività complessa sul piano sanitario e sociale, spesso incompatibile con la vita familiare. Deve essere riconosciuto come lavoro usurante, con tempi di riposo e tutele proporzionati. Inoltre, il nostro ruolo non può essere affidato a figure esterne o cooperative: servono medici formati, riconosciuti e rispettati come specialisti”.

Le cause alla base del fenomeno sono infatti strutturali: cronica carenza di personale, turni prolungati, carichi di lavoro eccessivi, formazione insufficiente nella gestione dei conflitti, ambienti insicuri, mancanza di protocolli efficaci. A tutto questo si aggiunge il rischio medico-legale. La SIMEU segnala che nel 53% dei Pronto Soccorso italiani sono in corso procedimenti penali a carico dei dirigenti, in media uno ogni dodici medici.

Le conseguenze sono già visibili: la specializzazione perde attrattività, aumentano le dimissioni, cresce la fuga verso il settore privato. Le motivazioni più ricorrenti? Stress lavoro-correlato (29%), bassa valorizzazione economica (26%), scarsa qualità della vita (23%) e rischio legale (22%). Alcune realtà locali hanno provato a reagire. In Emilia-Romagna è nata SegnalER, una piattaforma per la raccolta e il monitoraggio degli episodi di violenza. Il ministero della Salute ha avviato campagne di sensibilizzazione e corsi di formazione con Agenas e Onseps. Ma manca ancora un piano strategico nazionale coerente, strutturale e uniforme. E in assenza di misure incisive e coordinate, il rischio è che la normalizzazione della violenza nei Pronto Soccorso diventi una deriva irreversibile.


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