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Ambiente

Rifiuti inerti da costruzione, il “circolare” non decolla

Lo scandalo di un decreto dopo nove anni, arrivato solo nel 2024, un mercato frenato

di Giorgio Brescia -


In Italia, il settore della valorizzazione dei rifiuti inerti da costruzione è un tesoro nascosto e in gran parte inespresso. Ogni anno si producono decine di milioni di tonnellate di questi scarti: secondo dati recenti, si era arrivati a circa 60,6 milioni di tonnellate solo nel 2022.

Rifiuti inerti da costruzione: una ricchezza

Se questi materiali fossero riciclati e reimmessi in cicli costruttivi come aggregati per sottofondi, rilevati, calcestruzzi o asfalti, si potrebbe risparmiare su materie prime vergini, ridurre l’impatto ambientale e favorire una vera economia circolare.

Eppure, nonostante il potenziale, la filiera resta bloccata da un ritardo normativo grave. Confindustria -Cisambiente denuncia che il decreto atteso per mettere in pratica l’uso reale degli inerti riciclati ha impiegato ben nove anni. Al convegno Ecomondo 2025, Stefano Sassone ha stigmatizzato questa inerzia. Senza un quadro stabile e chiaro, il riciclo resta un esercizio teorico, non una risorsa concreta per il settore edile.

Il decreto dopo nove anni non basta

Il decreto finalmente approvato nel 2024 ha alleggerito alcune regole in vigore. Ma gli operatori segnalano che le nuove disposizioni restano insufficienti per attivare su larga scala il riutilizzo. E così, nonostante gli inerti riciclati abbondino, difficilmente arrivano dove servono: nei cantieri. Molti enti appaltanti sono ancora scettici. Preferiscono i materiali primari, considerati “sicuri”, e ignorano l’opzione riciclata. I dati sono impietosi e al tempo stesso pieni di speranza.

Secondo Ispra, oltre il 73% dei rifiuti speciali nel Paese viene recuperato, e una parte significativa di questi proviene proprio da demolizioni e costruzioni. Ma più che il riciclo, il dibattito si concentra sulla circolarità: molti materiali, pur tecnicamente recuperabili, restano bloccati in impianti senza trovare un secondo utilizzo utile. Eppure ci sono realtà virtuose che dimostrano che il modello può funzionare davvero.

Gli esempi virtuosi

La laziale Seipa, l’esempio più brillante: ricicla il 98% dei rifiuti inerti che arrivano nei suoi impianti e riesce a reintrodurre il 52% di questi aggregati nei cantieri come “materia seconda”. Un risultato straordinario, ma isolato. Altre imprese segnalano costi elevati, resistenza dal mercato, barriere normative.
L’impatto ambientale ed economico di questi ritardi è pesante. Se gli inerti riciclati fossero usati per costruzioni e infrastrutture, potrebbero sostituire tra il 50 e il 70% dei materiali estratti dalle cave, secondo il report di RicicloInItalia.

Ciò si tradurrebbe in minori scavi, meno consumo di suolo, e un’importante riduzione delle emissioni di CO₂. Inoltre, dare valore a questi materiali potrebbe generare nuova occupazione verde, stimolare innovazione e consolidare la filiera del riciclo.
Le associazioni ripetono lo stesso mantra. Anpar sostiene che, con un decreto efficace, si potrebbe riciclare oltre il 90% degli inerti prodotti in Italia. Ma senza premere sull’acceleratore, è solo una potenzialità non concretizzata.

Un problema di mercato e regolatorio

Il vero nodo non è dunque la capacità tecnica di riciclare: l’Italia ha le competenze e gli impianti. Il problema è di mercato e regolatorio. Serve un sistema robusto che garantisca la qualità degli aggregati riciclati, incentivi la loro adozione nei bandi pubblici, sostenga gli impianti e riduca i costi logistici. Se non si interviene ora, il rischio è chiaro. L’Italia potrebbe immaginare per decenni di sfruttare una risorsa circolare enorme, e invece restare ferma a produrre rifiuti destinati allo smaltimento o a un riciclo parziale e poco efficace. In un momento in cui la transizione ecologica rimane un imperativo, la lentezza rischia di trasformare l’economia circolare degli inerti in un miraggio anziché in un motore reale di sviluppo sostenibile.

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