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Attualità

Riforma della Giustizia, non giudizio universale

di Giuseppe Tiani -


La riforma approvata non scuote la giustizia, la sfiora, con la cautela di chi teme il sacrilegio. Non tocca il diritto, ma chi lo amministra. Separa giudici e pubblici ministeri come due coniugi stanchi, pronti a giurarsi eterna indipendenza. Divide le carriere, moltiplica i Csm, invoca una terzietà che la Costituzione già garantiva. Nascono così due ordini autonomi e due fragilità, un giudice più solo e un pubblico ministero più esposto.

La Costituzione continuerà a sancire l’autonomia, ma i magistrati devono prendere atto che nel corso del tempo si sono sempre autoassolti con rito abbreviato, celebrando processi di autostima privi di un dibattito autocritico. Su quel culto dell’intangibilità ha prosperato una cultura corporativa, legittimamente devota all’indipendenza più che all’etica della responsabilità nell’esercizio di delicatissime funzioni.

L’esecutivo, forte di un’opposizione debole, è intervenuto agevolmente su un corpo togato ormai convinto che autonomia significhi autosufficienza. Sabino Cassese lo ha ricordato, il problema della giustizia è nella cultura del potere che la abita. I cittadini, stanchi di una giustizia lenta e autorfeferenziale saranno chiamati ad esprimersi, su una riforma, più estetica che etica, che rischia di trasformare l’indipendenza in distanza, quella che separa la giustizia dalla realtà. Aristotele ammoniva che “la giustizia è la virtù perfetta, perché esercita la virtù verso gli altri”. Oggi quell’idea suona come un rimprovero. Finché resterà rito e non servizio, la giustizia continuerà a celebrare sé stessa, non i cittadini.


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