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Roma, molestie al Policlinico: denuncia social, ambiguità, confine tra vittima e accusato

Domani in edicola L'identità con un editoriale e un commento sulla vicenda

di Gianluca Pascutti -


Roma – Il caso di Marzia Sardo, la studentessa di 23 anni che ha raccontato su TikTok di essere stata molestata verbalmente durante una TAC al Policlinico Umberto I, ha scosso l’opinione pubblica italiana. La frase pronunciata dall’operatore “Se vuoi togliere il reggiseno ci fai felici tutti” è stata percepita da lei come una violenza psicologica, tanto da spingerla a girare un video in lacrime subito dopo l’esame, diventato virale in poche ore. Ma oltre alla cronaca, questa vicenda apre una serie di interrogativi che meritano una riflessione più profonda.

La denuncia mancata e il tribunale dei social

La giovane non ha sporto immediatamente denuncia alle autorità competenti a Roma, ma ha scelto di esporre l’accaduto sui social. Una scelta che ha diviso, da un lato chi vede in TikTok l’unico strumento a disposizione delle nuove generazioni per farsi ascoltare o per informarsi, dall’altro chi considera questo gesto una forma di processo mediatico istantaneo che rischia di condannare senza prove l’accusato.

Perché non andare prima in commissariato a Roma? Perché non affidarsi agli organi competenti? Forse per sfiducia nelle istituzioni, forse per il bisogno istantaneo di raccontare la propria ferita in uno spazio percepito come comunità. Questo caso comunque solleva una serie di interrogativi, quando la giustizia viene sostituita dai social, chi garantisce l’equilibrio e la verità?

Profili ambigui, emozioni reali

C’è chi ha sottolineato l’apparente contraddizione tra i contenuti leggeri, ammiccanti o ironici pubblicati in passato dalla ragazza e la reazione di dolore davanti a una frase indubbiamente inopportuna. Ma possiamo davvero misurare la sofferenza in base al “tono” di un profilo social? L’ambiguità dei social non va confusa con l’autenticità delle emozioni, il dolore di una persona non perde legittimità perché il giorno prima ha pubblicato un video spensierato.

Una battuta o una molestia?

La frase pronunciata dall’operatore, se confermata, resta fuori luogo, inaccettabile in un contesto sanitario, dove il paziente è vulnerabile e merita rispetto assoluto. Ma è molestia vera e propria o una battuta infelice? Qui sta il nodo che divide l’opinione pubblica. C’è chi difende la ragazza, sottolineando che in un momento di fragilità anche una battuta diventa una violenza, mentre chi difende i sanitari, ricordando che da una frase sbagliata non si può costruire un capo d’accusa che rischia di rovinare una carriera.

Le vere vittime chi sono?

Siamo davanti a un paradosso del nostro tempo dove la gestione dei social è sfuggita di mano, da una parte una giovane donna che si sente violata nel corpo e nella dignità, costretta a difendersi non solo dall’episodio subito, ma anche dagli attacchi di chi l’accusa di esagerare, dall’altra parte gli operatori sanitari che, in attesa delle verifiche interne, si trovano già additati come “molestatori” davanti a milioni di persone, senza che un giudice abbia accertato i fatti.

Chi è la vera vittima, allora? Forse entrambe le parti. Vittima è la ragazza che ha percepito un abuso in un contesto dove avrebbe dovuto sentirsi sicura. Vittime potenziali sono anche i professionisti che, se innocenti, potrebbero vedere la propria reputazione distrutta da un’accusa lanciata in rete per avere grande visibilità e qualche migliaio di follower in più.


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