Economia

Nel Paese del salario perduto, si guadagna meno che nel ’90

di Giovanni Vasso -

Le buste paga di Marco Trucco presidente del comitato operai della zona rossa mostra la cifra in negativo delle due ultime buste.Genova, 14 dicembre 2018. ANSA/LUCA ZENNARO


Nel Paese del salario perduto o, quantomeno, rimpicciolito. Non è questione di nostalgia, non è tutta colpa dei boomer. Forse si stava meglio proprio quando, almeno in teoria, si stava peggio. I dati parlano chiaro: nel 1990 le buste paga erano più pingui di quelle attuali. Anni di precariato, di retorica e di produttività in picchiata hanno imposto una rigida cura dimagrante agli stipendi degli italiani. Che hanno finito per perdere, in poco meno di 35 anni, quasi il 3 per cento del loro valore. La cosa più grave, però, è ancora un’altra. Sono anni, infatti, che l’Ocse mette nero su bianco la parabola discendente delle paghe in Italia. Ma a nessuno sembra interessare granché se non per agitare qualche twitt con la speranza che diventi virale o provare a fare una proposta di bandiera per provare a scalare qualche posizione nei sondaggi, come, su tutte, quelle legate al salario minimo. Ma il nodo è legato proprio al lavoro. In Italia si guadagna meno (un lavoratore su dieci dedica 49 ore a settimana al suo lavoro, gli autonomi anche di più) e, come ha certificato anche la Ue, si lavora più che altrove. La beffa delle beffe per un Paese bollato, dai soliti luoghi comuni branditi come un martello, per anni, dai partner internazionali per far valere i propri interessi.

I numeri dell’Ocse, elaborati da Openpolis, restituiscono il quadro di un Paese in cui i salari si rimpiccioliscono sempre di più. La pandemia ha rappresentato l’ultima mazzata dalla quale, ancora, non ci siamo ripresi. Nel 2022, infatti, gli stipendi hanno perduto il 3,4% del loro valore rispetto al 2019. Proprio in quell’anno si è registrato il tonfo con una variazione in negativo del 4,8 per cento. Siamo stati tra i peggiori in Europa. Con una differenza, rispetto ai partner Ue. In Italia gli stipendi sono sostanzialmente fermi ai livelli del 1991. Chiaramente, non un’ottima base di partenza per fronteggiare la doppia coppia di disgrazie che ci è capitata in sorte di vivere in questi anni. Prima il Covid e poi la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina. Abbiamo guadagnato meno per pagare tutto molto di più. E perciò l’Italia ha subito quella che sembrava una mutazione genetica ma che, in realtà, non era altro che una scelta pragmatica. Le famiglie non risparmiano più, rinviano le spese più rilevanti e intaccano i gruzzoletti messi da parte negli anni migliori per fare la spesa, pagare le bollette, prendere il bus per andare a lavorare, guadagnando poco e spendendo di più per comprare meno. A detrimento degli affari e dell’economia nazionale. Insomma, un circolo vizioso.

Se il salario è perduto, il dividendo invece è in ottima forma. Oxfam, nei giorni scorsi, ha riferito che mentre gli stipendi calavano, tra 2020 e 2023, i profitti per gli azionisti delle 1.200 società più capitalizzate del mondo sono cresciuti, in termini reali, di ben 14 volte rispetto ai salari corrisposti ai lavoratori di 31 Paesi, tra cui anche l’Italia. Il “monte cedole” complessivamente monitorato è proiettato a raggiungere quota 1.720 miliardi di dollari nel 2024, superando la cifra record di 1.660 miliardi di dollari del 2023. Un confronto spietato che racconta le ragioni alla base dei divari che si stanno registrando in Europa. Stando ai numeri Ocse, infatti, un lavoratore greco (dove il crollo delle paghe s’è attestato al 5.9%) guadagna un terzo di quanto, in media, si mette in tasca a fine mese un “collega” in Lussemburgo, uno dei cuori pulsanti del sistema finanziario in Europa. Lì, la media, è di 80mila euro all’anno. Seguono, in Europa, Danimarca, Austria e Olanda dove, nel 2022, i lavoratori si sono portati a casa, in media, più di 60mila euro all’anno. L’Italia cincischia: la media è inferiore ai 45mila dollari, undicesima nelle graduatorie europee, appena prima dei Paesi dell’Est. Cifre che restituiscono un’amara realtà. I salari reali, quelli effettivi e ancorati al potere d’acquisto, risultano oggi inferiori a quelli che si percepivano alla fine degli anni ’80. L’Italia è l’unica economia, con la presunzione di dirsi ancora grande ma dove s’è perduto il salario, che abbia registrato un dato così negativo.


Torna alle notizie in home