Economia

Saudi League, il calcio degli sceicchi oltre il petrolio

di Giovanni Vasso -


Saudi League, ci siamo. A Cristiano Ronaldo è concesso tutto. Anche farsi il segno della croce, esultando per un gol. Poco più in là c’è La Mecca, la legge rigorosissima della Sharia vieta senz’appello ostentare un’altra fede, per di più in pubblico. Ma CR7 “può fare ciò che vuole”. Senza far peccato. Né lui, né chi tifa per lui. E c’è una ragione precisa, il portoghese, da talento assoluto del calcio sta per diventare l’uomo che concluderà la sua carriera sportiva trasformando l’Arabia Saudita da potenza regionale a faro per tutti i Paesi musulmani.

Almeno, questo è ciò che spera il principe Mohammed Bin Salman. Che, mentre l’Europa si incarta e si divide sugli obiettivi climatici, ha lanciato la sfida saudita al 2030. Certo, anche lui tenterà di sganciare Riyadh dal petrolio. Che, attualmente, pesa per circa il 30-40% sui cospicui introiti nazionali. Non può fare altrimenti: il mondo sembra voler andare in una direzione diversa rispetto a quella dei combustibili fossili. Eppure una spiegazione simile sarebbe un po’ miope. Mbs, in realtà, sa bene che per fare dell’Arabia Saudita una potenza vera, capace di poter pesare sullo scacchiere geopolitico internazionale, deve diversificare. Investire ovunque, specialmente nella finanza e nelle nuove tecnologie. Rafforzare il ruolo di ponte, specialmente commerciale, tra l’Asia, l’Africa e l’Europa. Imporsi come Paese guida per i credenti musulmani di tutto il mondo. Passare, in definitiva, dal duro potere dei petrodollari al soft power culturale e geopolitico. È per questa ragione che la Saudi Pro League, il campionato di calcio saudita che inizia in questo fine settimana, rappresenta un capitolo importante, forse fondamentale, della strategia della Vision 2030 di Mbs.

Il calcio è la religione laica non solo in Europa ma anche nell’area araba. I tifosi nordafricani e mediorientali, tra i più attivi nell’era della globalizzazione del football, a differenza di quelli della Vecchia Europa, non soffrono nazionalismi. Sono appassionati di squadre (finora) lontane e di calciatori. Tifare Manchester City o Al Nassr, per loro che guardano tutte le partite in tv, non è poi tanto difficile. Né troppo diverso. Certo, Guardiola e Haaland vincono la Champions League mentre Cristiano Ronaldo, per ora, dovrà accontentarsi di qualche trofeo che sicuramente non avrà lo stesso fascino. Ma da una parte occorre pur iniziare. Intanto, si comincia costruendo l’hype. Cioè la grande attesa di un torneo altrimenti anonimo. Poi si sborsano quattrini. Tantissimi, e non solo per CR7. Anche per Benzema, Kanté, Neves, Brozovic e via discorrendo. Secondo Transfermarkt, il valore delle rose delle 18 squadre saudite (503 calciatori, 133 dei quali stranieri) ammonta a poco più di 810 milioni di euro. L’intera Lega vale 1,6 miliardi di euro o giù di lì. Solo in questa sessione di mercato è stato speso mezzo miliardo. Ma è una stima al ribasso e che non tiene conto, ovviamente, delle offerte mostruose che pure sono state rifiutate almeno finora da gente come Victor Osimhen e, ancora meglio, Kylian Mbappé.

Ma se bastassero solo i soldi, sarebbe facile. E gli Usa prima, la Cina e l’India poi sarebbero già da tempo delle potenze calcistiche. Come recita l’immortale lezione di Gianpiero Boniperti, “vincere è l’unica cosa che conta”. Se i qatarioti che hanno gettato miliardi di euro nel Psg avessero vinto almeno una Champions, oggi di sicuro parleremmo di quanto Al Thani sia cresciuto e sia stato perspicace nel comprendere come si fa il calcio. Le stesse cose, in pratica, che oggi qualcuno dice dello sceicco emiratino Mansour, il munificissimo presidente dei Citizens che hanno (finalmente) conquistato il trofeo continentale.

A differenza dei tentativi cinesi, indiani, giapponesi, tutti figli della vicenda (fallita) dei Cosmos di Pelé, Chinaglia e Beckenbauer, l’Arabia – per il tramite del fondo Pif, braccio pagante di Mbs – non punta (solo) a svuotare l’Europa ma a creare qualcosa di duraturo che possa fare del campionato saudita, e quindi del Paese che lo ospita, un punto di riferimento per le comunità islamiche sparse in tutto il mondo. È il tentativo di Riyadh di diventare finalmente grande e di ragionare, da pari, con tutti. Anche nel calcio, anche con la Saudi League. Che sia l’Europa che, come lo scudiero squattrinato di Lazarillo de Tormes, si abbarbica alle glorie passate ostentando sufficienza verso gli ennesimi parvenu del calcio (che però rischiano di rubargli spazio e diritti tv in mercati lucrosissimi oltre che una legione di talenti), sperando però di riuscire a scucirgli capitali; o che sia l’America di Messi che del calcio e dello sport in generale ha una visione schiettamente commerciale e sicuramente meno competitiva di quella araba targata Cr7.

Il vero successo del campionato saudita non si vedrà subito, ma sulla lunga distanza. Intanto, la Saudi Pro League dovrà affrontare il pressing delle Ong che accusano Bin Salman e Riyadh di usare il calcio per rifarsi un’immagine internazionale. Si chiama sportwashing. E non è una pratica così inusuale. Anzi. C’è gente che, grazie ai successi mietuti col calcio, è assurta – letteralmente – a divinità pagana. Ma questa è, ovviamente, un’altra storia.

In Italia, sarà possibile seguirne tre partite a giornata, due su Sportitalia e una su La7. E state pur sicuri che qualcuno si appassionerà. A Plaza Mayor, nel cuore dell’orgogliosa Madrid, dove Ronaldo è ancora una leggenda, i negozi vendevano, accanto alla camiseta blanca del Real e a quella colchonera dell’Atletico, tante, ma tante, magliette gialloblù dell’Al Nassr.


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