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Sinwar, il “macellaio” di Hamas che ha beffato Netanyahu: nelle sue mani gli ostaggi

di Angelo Vitale -


“Yahya Sinwar è il comandante della campagna di Hamas contro di noi ed è un uomo morto”. Lo ha detto alla stampa israeliana il portavoce delle forze armate israeliane, Daniel Hagari. Un falco, il numero due del movimento, il vero artefice dello scoppio di un conflitto che Israele già chiama guerra. Nelle sue mani la vita di 170 o forse più ostaggi – le voci riferiscono di centinaia di giovani catturati solo nel rave nel deserto raggiunto dai deltaplani dei terroristi -. Ostaggi israeliani e stranieri, forse anche americani. Uomini, donne, anziani e bambini pronti ad essere usati come scudi umani contro l’avanzata della più sferzante campagna israeliana, divisi a metà tra i militanti di Hamas e la jihad islamica. Nascosti nei tunnel scavati per anni sotto Gaza o nei dintorni. Un reticolo impenetrabile di cunicoli ove la speranza di ogni possibile blitz può infrangersi contro il rischio di esseri umani trasformati in bombe pronte ad esplodere.

Già pronta per un film o una prossima serie tv la biografia di un uomo che è riuscito a beffare non solo l’intelligence più addestrato ed efficace del mondo ma lo stesso leader di Israele.

Sinwar è nato in un campo profughi nel 1962, ha frequentato l’Università islamica di Gaza ed è esperto del mondo ebraico, tanto da parlarne correntemente la lingua. Il suo nome completo è Yahya Ibrahim Hassan Sinwar. Ha conosciuto la sua prima cella a 20 anni. Il carcere come scuola di formazione per la causa. La scelta dell’azione e della violenza, immediata. Nel 1985 a sua opera la costruzione del ramo di sicurezza di Hamas, per punire tutti coloro che trasgrediscono alla “moralità” palestinese e i sospettati di collaborazionismo con Israele.

Il sangue come cifra della sua figura, protagonista di spietate esecuzioni, il “macellaio di Khan Younis”, dal nome del campo profughi dove è nato.

L’ingresso per la seconda volta in carcere nel 1988, in una prigione israeliana. Dopo 23 anni, il rilascio, merce di scambio in un pacchetto di 1000 prigionieri palestinesi che Israele cede in cambio di un solo loro soldato, Gilad Shalit, catturato nel 2006 e tenuto in ostaggio a Gaza per cinque anni. Secondo Israele, Sinwar è “acerrimo nemico” degli egiziani, sostenendo le ragioni degli affiliati dello Stato islamico che combattono l’esercito egiziano nel deserto del Sinai. Il suo pallino, le relazioni più strette con l’Iran, lo Stato che con lui avrebbe condiviso una strategia strisciante arrivata da pochi giorni al bagno di sangue a Gaza e nei territori occupati.

Nel marzo di due anni fa, l’elezione di Sinwar per un secondo mandato di quattro anni come capo dell’ufficio politico di Gaza. In pratica, il più alto funzionario di Hamas a Gaza, il governante di fatto della Striscia, il secondo membro più potente di Hamas dopo Ismail Haniyeh.

Inquietanti, le vicende che lo narrano protagonista di un minaccioso colloquio tutelato dai rapporti diplomatici due anni fa. Nel maggio 2021, la promessa del Qatar di un aiuto fino a 500 milioni di dollari per la ricostruzione della Striscia di Gaza assediata, annunciata dal ministro degli Esteri dello stato del Golfo, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani: “Continueremo a sostenere i nostri fratelli in Palestina affinché raggiungano una soluzione giusta e duratura creando il loro Stato indipendente”, il suo tweet. A conferma del ruolo del Qatar, spesso di mediazione tra Israele e Hamas. Mediazione che ufficialmente, è stata condotta sempre all’insegna degli obiettivi “umanitari”, per “contribuire alla ricostruzione delle strutture di servizio a Gaza e alle case che sono state distrutte”, riferiva l’agenzia di stampa ufficiale Qna.

A giugno di quell’anno, Sinwar entra in campo e fa capire che “un ritardo nella ricezione del denaro porterebbe ad un aumento della sicurezza”. La parola “sicurezza”, in un incontro con l’inviato dell’Onu in Medio Oriente. In pratica, la minaccia di una escalation di violenza. Di fronte a lui, l’inviato Tor Wennesland. Sul tavolo, il trasferimento di 30 milioni di dollari al mese.

Soldi poi sbloccati, con il visto finale del primo ministro Benjamin Netanyahu. Un fiume di denaro, una “ricostruzione” servita anche a foraggiare l’attacco mortale di questi giorni. E a costruire i tunnel ove sono ora centinaia di ostaggi nelle mani di Sinwar.


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