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Tapie e gli altri, il racconto dello sport e i nuovi media

di Giovanni Vasso -

BERNARD TAPIE


Bernard Tapie. Un uomo discusso, a dir poco. E la serie che lo racconta non poteva essere diversa. C’è un po’ di polemica, in Francia. La rivista So Foot lamenta il fatto che, al calcio, Netflix ha dedicato davvero troppo poco spazio. Il pallone “appare” solo nella quinta e sesta puntata. Per raccontare, più che altro, il trionfo europeo del ’93 e il seguente scandalo che lo travolse. Eppure, sussurrano, di Tapie, si sarebbe potuto raccontare tanto altro. Era già entrato nel calcio nel 1986 e, in sette anni, ne aveva già fatte di ogni. Persino ingaggiare Maradona, dopo Italia ’90. Ma Tapie è stato tanto altro. È stato il “missile” politico di François Mitterand. È stato l’uomo che ha cambiato (in meglio? In peggio?) il capitalismo francese ed europeo, legittimando azioni e strategie che, altrimenti, sarebbe stato ancora poco definire borderline. Una trasformazione che fatalmente ha impattato anche con la politica e con lo sport. La personalità strabordante e anticonformista di Tapie è stata un caleidoscopio che ha abbagliato la Francia. E che Netflix, punta di diamante dei new media, non poteva lasciarsi sfuggire. Lo streaming investe sempre più spesso nel racconto delle vite straordinarie. Che, per forza di cose, spesso e volentieri si incrociano con lo sport.

Netflix lo aveva già imparato. Il binomio personalità-sport paga. Eccome. Era il 2020 quando la piattaforma ha lanciato The Last Dance. La serie sull’ultima stagione, sull’ultimo ballo, dei Chicago Bulls. Michael Jordan, forse il maggiore talento che abbia mai calcato i parquet dell’Nba, è il protagonista assoluto. Ma, accanto a lui, si muovono personaggi che appaiono secondari ma che, invece, sono altrettanto importanti e affascinanti. Dal coach Phil Jackson ai compagni di squadra: Scottie Pippen e Dennis Rodman su tutti. Poi gli avversari e Jerry Krause, il manager dei Bulls che decise, di punto in bianco, di cambiare tutto e che incarna, alla perfezione, il ruolo del “cattivo”. Di recente, a proposito di basket, è stata un successo la serie Scugnizzi per Sempre che ha raccontato al grande pubblico della Rai l’epopea gloriosa della piccola Juve Caserta, la squadra di provincia capace di mettere in fila i grandi del basket e di conquistare uno scudetto nel 1991. Qui il racconto è più corale ma le personalità non mancano: da Bodgan Tanjevic fino a Franco Marcelletti, da Oscar Schmidt (che anche grazie a Caserta riuscì nell’immaginifico obiettivo di entrare nell’Hall of Fame dell’Nba senza averci mai neanche giocato) fino a Nando Gentile e Enzo Esposito, per arrivare a Giovanni Maggiò, l’imprenditore illuminato che s’è inventato la responsabilità sociale d’impresa decenni prima che diventasse di moda.

Lo sport, dunque, non è solo risultati, statistiche, partite. Un elenco sterminato di partite. È soprattutto racconto. È sempre stato così. In Italia, tra i primissimi a raccontare lo sport in maniera diversa rispetto al resoconto dell’attuale, è stata la trasmissione Sfide. Prima ancora, c’erano state le vecchie Vhs vendute in edicola. Spesso legate ai territori, al racconto di singole imprese o di “dinastie” sportive. Ma si è trattato di sforzi che hanno pagato. Perché hanno risposto a un’esigenza che le comunità hanno avvertito prima dei grandi broadcaster.

Chi conosce il passato, racconta il futuro. L’Nba lo ha capito, così come lo hanno ben compreso le franchigie più popolari. La lega e i club producono, da sé, documentari e serie interessantissime che sono compulsate da milioni di appassionati in tutto il mondo. Mentre l’Nba finanzia i documentari “dal basso” che raccontano il basket in ogni angolo del mondo, la Lega di Serie A è rimasta legata ancora ai reality e promuove “The Italian Dream”, una sorta di remake del vecchio Campioni (quello con Ciccio Graziani, ricordate?) ma per tentare di raggranellare sponsor e abbonamenti tra Nordafrica e Medio Oriente. La differenza è notevole e sostanziale. L’Nba si pone da leader, su scala globale, per il basket e per lo sport. La Serie A, invece, spreca un testimonial come Francesco Totti per un’iniziativa regionale. Chissà cosa sarebbe piaciuto di più a un visionario come Bernard Tapie.


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