Editoriale

Tertium non mandatur

di Tommaso Cerno -


Tertium non mandatur. Nell’Italia che ormai ha reso la norma il doppio mandato del Capo dello Stato (14 anni al Quirinale) sembra davvero strano il no a tre mandati per i Governatori. Che in fondo stanno seduti là perché lo vuole il popolo sovrano. Viene da sé che al di là del dibattito fra costituzionalisti, politologi, influencer, amanti del pandoro, e chi più ne ha più ne metta, la ratio vorrebbe che gli organismi legislativi possano durare in carica quanto il popolo vuole, mentre chi ha compiti di governo, esecutivi, quindi ha in sé il grosso del potere, abbia dei limiti.

Ma suona strano per due ragioni nell’Italia dove la Costituzione è buona quando comoda e quando invece si vuole interpretarla gli spazi sono infiniti. E cioè che la vera ragione per cui è messo in discussione il terzo mandato ai presidenti delle Regioni non alberga nella mole di testi che hanno reso l’Italia il Paese più avanzato sul piano giuridico-teorico e più complicato sul piano giuridico-pratico, ma nelle caselle politiche che questo via libera riempirebbe per altri cinque anni. Perché come sempre le questioni hanno un nome e un cognome.

E solo così si spiega perché il Partito Democratico votò in Parlamento la riforma costituzionale di Renzi mentre grida allo scandalo se una riforma costituzionale viene proposta dalla destra di Meloni. Perché solo così si spiega perché Acca Larentia diventa un pericolo fascista quando al governo c’è la destra mentre negli ultimi vent’anni non lo è mai stato. Perché in questo Paese ipocrita si cerca sempre una narrazione per il popolo cialtrone buona alla bisogna. E la questione è molto più semplice di quanto appaia: terzo mandato per i governatori significa consegnare per altri cinque anni tutto il Nord Est italiano alla Lega di Salvini, forte di figure capaci di raccogliere enorme consenso alle elezioni, garantendo alla Lega una base elettorale territoriale molto più stabile e forte di quanto sia la curva dei sondaggi politici nazionali.

Questo comporta una conseguenza semplice: Fratelli d’Italia, il primo partito italiano e soprattutto il partito col più ampio consenso del centrodestra di governo, avrebbe le briciole da quel voto amministrativo che serve alla politica nazionale per mettere le radici all’albero del governo. Si tratterebbe di un sacrificio nel nome della coalizione, alla luce di un patto che però fatica a vedersi realizzato a Roma, dove Meloni e Salvini parlano due lingue di destra differenti.

La stessa cosa capita sul fronte opposto, dove i due governatori forti del Sud, Vincenzo De Luca in Campania e Michele Emiliano in Puglia, non sono espressione del Pd di Elly Schlein, ma in modo diverso sono due figure forti e difficilmente arginabili. E così in questo Paese che sembra litigare su tutto, c’è una cosa su cui Meloni e Schlein vanno molto d’accordo. L’idea di un passaggio di consegne sui territori alle leadership attuali degli schieramenti. E’ una questione politica. Che forse a destra potrebbe essere risolta dal premierato e a sinistra dalla presa d’atto di Elly Schlein che una rottura con il Sud vorrebbe dire consegnare milioni di voti all’avvocato Giuseppe Conte. Che non vede l’ora.


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