Anche le università contro la violenza sulle donne (che non cessa)
Otto università milanesi hanno firmato il 16 dicembre il protocollo “Milano per la prevenzione e il contrasto alla violenza maschile contro le donne”. Statale, Bicocca, Politecnico, Cattolica, Bocconi, Iulm, Humanitas e San Raffaele si aggiungono ai 40 soggetti che già dal novembre 2023 collaborano con il Comune per coordinare istituzioni, centri antiviolenza e forze dell’ordine.
Gli atenei si impegnano a promuovere sensibilizzazione, formazione, sportelli d’ascolto e ricerca. Obiettivo: creare “metodologie comuni” e “condividere buone pratiche”. Ma mentre Milano coordina le sue task force accademiche, l’Italia conta 85 femminicidi tra gennaio e ottobre 2025, secondo il rapporto Eures. Nel 2024 le vittime sono state 113, il 99 delle quali in ambito familiare. Sessantuno donne uccise dal partner o dall’ex. Numeri che, pur registrando una lieve flessione rispetto al 2023 (-6%), continuano a fotografare una carneficina domestica che nessuna campagna universitaria può fermare da sola.
Italia sopra la media europea
L’indagine Eurostat 2024 sulla violenza di genere rivela che circa 6,4 milioni di donne italiane tra i 16 e i 75 anni – il 31,9% – hanno subito almeno una violenza fisica o sessuale nella vita. Un dato leggermente superiore alla media europea del 30,7%. Ma è quando si guardano i confronti internazionali che emergono le vere sorprese.
In Finlandia il 57% delle donne dichiara di aver subito violenza di genere, in Svezia il 52%, in Danimarca il 47%. All’opposto, probabilmente per considerazioni e valutazioni differenti sul concetto di violenza, la Polonia (16,7%) e la Bulgaria (11,9%) registrano percentuali bassissime. Come è possibile? Il cosiddetto “paradosso nordico” spiega che nei paesi con maggiore parità di genere le donne riconoscono meglio la violenza e la denunciano di più. Dove gli stereotipi culturali sono più radicati, la violenza viene normalizzata e nascosta. Un dato che smaschera l’ipocrisia di chi pensa che il problema sia “da altri”, quando invece è proprio nei luoghi più “evoluti” che il fenomeno emerge in tutta la sua pervasività.
La sensibilizzazione accademica contro una violenza sistemica
Il protocollo milanese prevede che gli atenei organizzino “percorsi universitari sulle tematiche di prevenzione”, promuovano “sportelli di ascolto” e svolgano “ricerche per sviluppare nuove politiche”. L’assessore al Welfare Lamberto Bertolé parla di “passo decisivo per superare la frammentazione degli interventi” e costruire “un’azione coordinata”. Gli atenei aderiscono al Centro Interuniversitario Culture di Genere per sviluppare progetti comuni.
Tutto condivisibile, ma la realtà è che mentre le università scrivono protocolli, il 63,7% delle donne europee vittime di violenza racconta l’accaduto solo a persone della cerchia familiare. Solo una su cinque contatta un operatore sanitario e appena una su otto denuncia alla polizia. In Italia, tra gennaio e settembre 2024, le chiamate al 1522 (numero anti-violenza) sono aumentate del 57% rispetto al 2023, raggiungendo 48 mila richieste. Un segnale positivo di maggiore consapevolezza, ma anche la certificazione di un’emergenza che divora vite mentre i tavoli tecnici si riuniscono.
L’Europa senza una definizione comune di stupro
Il confronto europeo evidenzia un altro problema: l’assenza di uniformità normativa. Nel 2023 la direttiva europea contro la violenza di genere ha escluso la definizione di stupro come “atto sessuale non consensuale” perché solo 15 stati membri hanno accettato il principio del “solo sì significa sì”. L’Italia, insieme ad altri paesi, limita la definizione di stupro all’atto consumato con violenza, coercizione o minaccia. Una differenza non da poco che rende impossibile confrontare realmente i dati tra stati.
La Svezia registra oltre 200 casi di violenza sessuale ogni 100 mila abitanti, seguita dall’ Islanda (150) e dalla Francia (100). L’Italia si ferma a circa 60, ma il dato riflette probabilmente più la propensione alla denuncia che l’effettiva diffusione del fenomeno. In Svezia denunciare è culturalmente accettato, nell’Est Europa è ancora un tabù.
Gli universitari italiani
L’indagine Ipsos per l’Osservatorio giovani Toniolo su due mila ragazzi tra 18 e 34 anni ha rivelato quanto siano ancora radicati gli stereotipi di genere proprio tra i giovani che dovrebbero essere i destinatari della “formazione” universitaria. L’11% (15% tra i maschi) è “molto d’accordo” con l’affermazione “le donne che non vogliono un rapporto sessuale possono evitarlo”. L’8,9% pensa che “le donne possono provocare la violenza con il modo di vestire”.
Servirebbe una rivoluzione culturale e mentale che parta dalle scuole, prima che dall’università, per scardinare quegli stereotipi che trasformano ragazzi “normali” in assassini.
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