Cultura & Spettacolo

VISTO DA – Quel morso del coniglio che male non fa

di Nicola Santini -


Il punto di partenza è stata Sarah Snook, che mi era molto piaciuta in Succession e che anche qui rende onore al suo personaggio. Zapping su Netflix e il coniglio morde anche me. Lo vedo e mi appassiono subito. Forse troppo, una sorta di eiaculazione precoce, perché (ma prometto di riguardare tutto con calma) tutto ciò che mi ha sedotto in fase iniziale, poi si è ammosciatostrada facendo.E questo se si parla di un thriller psicologico, beh, bene non mi ha fatto. Però, lo dico con molta franchezza, nel complesso mi è piaciuto e lo riguarderei, anche solo per ricredermi di certe perplessità, che riguardano principalmente la regia. Una regia elegante, quella di Daina Reid, elegante nelle sue suggestioni, ma che a un certo punto frena e diventa superficialotta. Peccato.
L’impianto generale del film, nato tanto per il grande schermo quanto per l’adattamento alla piattaforma streaming, si svolge in una Melbourne inizialmente tetra poi, poco alla volta, selvaggia.

Una nota che è piaciuta poco alla critica e al pubblico, ma molto a me e a chi mi somiglia, è la mancanza totale di empatia dei personaggi. La loro freddezza, composti fino alla noia mortale, è per me funzionale al dark indotto che regna sovrano nella prima parte, quella a parer mio, più coinvolgente. Dove sono poco empatici? Nei dettagli, nelle parole, perfino negli sguardi.
In generale vediamo sulla scena nera che più nera si fa fatica ad immaginare, personaggi molto poco affabili alle prese con pezzi scombinati solo apparentemente di un puzzle a dir poco incongruente,che a un certo momento si arena e che poi dàla botta finale in chiusura e mira a risolvere.

Ecco, questo giro col freno a mano tirato può,in effetti, tentare di andare al mare o farsi un gelato mentre quelli stanno lì, ma poi Il morso del coniglio switcha sull’horror celebrale, ed è un tripudio di estetica, forma, simbolismo che convince molto più di quanto convincano i personaggi e la storia stessa, che quando si arena, si arena perché tutti quelli che dovrebbero essere colpi di scena o punti di svolta, sono estremamente intuibili. Anche qui, voglio sperare sia voluto e che la regista sia un genio: arrivi a calarti non nei panni dei protagonisti, non nelle loro vicende, ma nella tappezzeria e negli orpelli che sono la storia nella storia.E destreggiandoti nel buio, bene o male la luce la trovi da te. In questo, chapeau. Se invece è casuale è culo.

Vediamo una madre, una figlia e un coniglio bianco. Sarah nei panni di una dottoressa, soffre per il recente lutto del padre, ma deve anche fronteggiare il compleanno di sua figlia Mia ( interpretata dalla bravissima Lily LaTorre), che compie sette anni. Separata da un bel pezzo dal marito Pete, evita con cura le chiamate dalla casa di cura dove ha rinchiuso la madre, dominata da demenza senile. Dopo che un coniglio bianco randagio morde la mano di Sarah tutta la storia inizia a diventare particolarmente bizzarra. Mia comincia a cambiare maniere e vuole andare a trovare la nonna che non ha mai visto. E dice a sua madre di non chiamarsi Mia, bensì Alice. Nome che non è esattamente causale: Alice era la sorella di Sarah, scomparsa proprio quando aveva sette anni.
Il resto è spoiler ma nemmeno troppo. Perché la storia, scritta com’è non è che lasci troppo all’immaginazione. Merita invece la fotografia, che rende giustizia agli stati d’animo e alle sensazioni delle protagoniste, appunto, piuttosto prive d’anima.Merita meno, duole dirlo, la regia, che indugia troppo, resta lì, in un morso superficiale che male non fa.


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