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Attualità

La pace imbrattata: anatomia della degenerazione (in) civile

di Giuseppe Tiani -


All’alba dello spiraglio di pace, nell’attesa che il governo di Netanyahu ratifichi l’accordo con Hamas che farà cessare il fuoco, con il sangue freddo che il clamore non concede, il 7 ottobre italiano appare per ciò che è stato davvero. Non una marcia per la pace, ma la sua parodia più volgare, non solo per gli slogan sgrammaticati e le bandiere sventolate, ma per la sfrontata disumana leggerezza con cui si è giocato sull’orrore, con cori festanti che inneggiavano all’odio antisionista. Confondendo la tragedia con il tifo, l’indignazione per la mancata pietà con il fanatismo.

La politica ridotta a performance dell’apparire, la militanza a spettacolo, la coscienza a posa

Mentre si gridava “resistenza”, nessuno guardava gli occhi delle vittime – né di una parte né dell’altra, l’intifada importata per la lotta politica negli affari italiani, ha offuscato le lacrime del dolore per i lutti e l’attesa per gli ostaggi delle famiglie israeliane non ancora rilasciati. Un dolore drammatico e non diverso, dagli occhi degli sguardi smarriti, colmi d’orrore delle madri palestinesi, che con amore avvolgono tra le braccia stanche i corpi senza vita, mutilati o denutriti dei propri figli. E così lo spirito della parola “pace” è stata profanato da chi la usata come megafono per la propria rabbia.

Ma la verità è che tutto era già scritto tre giorni prima

Il 4 ottobre, quando le piazze erano esplose per chiedere pace in una miscela di rabbia, confusione e violenza, non solo studenti e famiglie ma anche centinaia di delinquenti travisati e armati, che lanciavano oggetti e bombe contro le donne e gli uomini in uniforme delle forze di polizia, che, per eccesso di prudenza, non hanno usato la prerogativa della forza dello Stato che pur gli compete. Sigle associative di varia natura e dubbia composizione, hanno artatamente confuso e manipolato il diritto alla protesta con la licenza di ferire i poliziotti, ingenerando paura nei cittadini.

Il 4 ottobre è stato il preludio, il 7 ottobre la replica

Due capitoli della stessa storia, quella di un sentimento collettivo che nel nobile intento d’invocare la pace, gruppi dall’indole eversiva l’hanno affogata in un vortice di violenza devastatrice. Un fil rouge lega quei giorni, a partire dalla crisi politica e identitaria di una parte del Paese che smarrito il senso del limite, confonde la protesta con la verità e lo scontro con la coscienza della presunta ragione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti:

Quarantuno agenti feriti ben 126 in tre giorni, beni pubblici devastati, e un monumento a Giovanni Paolo II – l’uomo che della pace fece il suo Vangelo – imbrattato da chi la invocava. Non c’è pace nei sassi scagliati contro chi serve lo Stato. Non c’è nessun sentimento di umanità nel lordare ciò che rappresenta la memoria del comune sentire. E non c’è politica nel silenzio di chi avrebbe il dovere di condannare tutto questo. Coloro i quali, si proclamano paladini e paladine delle libertà civili, hanno taciuto, nessuna parola limpida di condanna, nessuna difesa della legalità, nessuna parola i lavoratori che indossando l’uniforme blu. Un silenzio che pesa come complicità morale. Eppure, in quella piazza c’era, almeno in origine, un sentimento autentico di verità e disagio, la stanchezza di fronte alla tragedia della guerra, la pietà per le vittime, la domanda di giustizia.

Ma un sentimento collettivo, per restare nobile, ha bisogno del rispetto per la grammatica civile e di una guida morale e politica

Altrimenti si trasforma nell’indecoroso spettacolo a cui assistiamo con sempre maggiore frequenza, durante le manifestazioni, la folla confusa, urlante, che nega ciò che pretende di difendere. Tra il 4 e il 7 ottobre, una parte dell’Italia ha smarrito la memoria della lezione di civiltà, che consentì d’interpretare lo spirito del progresso per l’emancipazione delle classi subalterne, contro l’oppressione della società borghese. Chi ha manipolato il sussulto spontaneo della protesta, poi non è stato in grado di rispettare i canoni della pedagogia sociale e civile.

La pace che doveva unire è diventata pretesto per dividere

Politici del calcolo e della somma, privi di una proposta e visione alternativa al governo del paese, ma sempre attenti a non scontentare la piazza e le sue degenerazioni, hanno scelto il silenzio. Ma il silenzio, di fronte alla violenza non è mai neutrale. È resa. Chi non condanna la violenza per calcolo, ne subisce le conseguenze per mancanza di dignità.


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