Il dolore nell’era dell’IA: confidarsi a una macchina invece che a un essere umano
Ogni settimana 1,2 milioni di persone parlano di suicidio all’intelligenza artificiale. Non a un medico, a un familiare, o ad un amico, ma ad una chatbot. Questa è la cifra spaventosamente alta diffusa da OpenAI, l’azienda che ha creato proprio ChatGPT. Dietro lo schermo, in silenzio, un’umanità ferita cerca conforto in un algoritmo. Questi dati preoccupanti dietro cui si celano persone di tutte le età meritano maggiore attenzione e proprio per questa ragione ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Francesca Aloe, laureata in Psicologia dello sviluppo tipico e atipico (La Sapienza di Roma), con conoscenze approfondite sui disagi adolescenziali e giovanili.
Dottoressa com’è possibile che così tante persone trovino più ascolto e confidenza in un sistema elettronico piuttosto che in professionisti o attraverso il dialogo umano?
“Penso che le persone, in particolare i ragazzi di oggi, abbiano bisogno di parlare, ma soprattutto di essere ascoltati senza essere giudicati o interrotti, motivo per cui, spesso, si rivolgono all’intelligenza artificiale, che risulta essere costantemente attiva e fruibile da chiunque”.
C’è un motivo se molti scelgono di confidarsi con ChatGPT?
“Uno dei tanti fattori che porterebbe i ragazzi o i giovani adulti a rivolgersi ad un interlocutore virtuale, piuttosto che ad un professionista o ad altre persone vicine, è la vergogna. Il parlare ai propri genitori o ai propri amici di alcuni temi ci fa provare vergogna, emozione che si riduce al minimo quando parliamo con un’intelligenza artificiale. Per di più, la maggior parte di ragazzi e di giovani adulti, ad oggi tende a non tollerare più il dolore, l’imperfezione o la sofferenza, e anziché accettare e lavorare su tutto questo, preferiscono “eliminare il problema” ricorrendo così a chatbot che dispensano soluzioni e metodi facili e veloci”.
Quindi si preferisce avere l’illusione dell’ascolto perfetto?
“Purtroppo alle volte sì, perché in un mondo che corre veloce, l’unico ascolto possibile sembra essere quello che ci viene offerto da una piattaforma digitale. Tutto si consuma in pochi istanti, non ci è più concesso il tempo di fermarci a riflettere su chi siamo, su ciò che vogliamo o non vogliamo. Per cui, in alcuni casi, nella fretta di muoverci o di eliminare ciò che ci disturba – emozioni comprese – ci si affiderebbe a soluzioni o scelte estreme, una di queste è la violenza o il suicidio”.
Che consiglio si sente di dare?
“Il mio consiglio è quello di affrontare, nel caso specifico, il tema del suicidio con i giovani, conoscere il loro punto di vista, chiedere loro se, almeno una volta, ci abbiano pensato. Purtroppo, il suicidio ad oggi rappresenta ancora un taboo – nelle scuole, nelle famiglie e tra i pari – parlare di suicidio ai giovani non significa esortarli a farlo, significa affrontarlo, un po’ come si fa con l’educazione sessuale, con il bullismo o con la violenza. Quando se ne parla, qualcosa sembra cambiare: ciò che era indefinito o poco chiaro dentro di noi prende forma e smette di sembrare così opaco. Parlarne aiuta, ci fa sentire un po’ meno soli e incompresi. Purtroppo, il fatto che i ragazzi parlino con l’intelligenza artificiale racconta più di noi adulti che di loro: spesso sono gli adulti a non essere pronti ad accogliere certi pensieri, emozioni o fragilità dei giovani”.
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