Cittadinanza e identità, il sangue non basta più
La recente pronuncia della Corte costituzionale sull’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis si è chiusa con un verdetto di inammissibilità e infondatezza riguardo alle questioni sollevate dai tribunali italiani, che lamentavano l’assenza di limiti all’acquisizione della cittadinanza per discendenza. Tale decisione riapre le porte a un dibattito antico e mai sopito su cosa significhi appartenere alla comunità nazionale. Al centro della vicenda, infatti, non vi è solo la legittimità di una norma, ma la definizione stessa di popolo, di appartenenza e di identità collettiva, in un tempo in cui i legami culturali e territoriali appaiono sempre più sbiaditi. Il diritto iure sanguinis che nel nostro tempo si concretizza nella cittadinanza per discendenza, si fonda sull’idea che la provenienza biologica da un cittadino italiano, sia sufficiente a generare il diritto di cittadinanza anche a distanza di generazioni e al di là dei confini. Questo principio risponde a una logica storica che, per decenni, ha cercato nei discendenti degli emigrati italiani un filo di continuità identitaria. La Corte, pur riconoscendo le profonde radici storiche della questione, mette in guardia il legislatore, quel legame di sangue rischia di trasformarsi in un automatismo giuridico che ignora i mutamenti sociali e culturali, svuotandosi così del suo significato originario. Richiamando con finezza la complessità della nozione di cittadinanza, la Corte ha scelto la via della prudenza istituzionale e, tramite un ragionamento di ampio respiro, ha ritenuto corretto non sostituirsi al legislatore con una sentenza manipolativa. Ciò perché, saggiamente e legittimamente, tutte le decisioni che esulano dalla funzione di garanzia spettano al Parlamento, unico titolare del potere di bilanciare principi e realtà sociali. Tuttavia, dietro questa scelta di auto contenimento, si intravede una riflessione sociale più ampia. La cittadinanza non è soltanto un istituto giuridico, ma un indicatore della qualità democratica di un Paese, nonché lo specchio di come una nazione concepisce la propria identità e il rapporto con gli altri. La logica dello iure sanguinis oggi si confronta con una realtà capovolta, in cui l’Italia è divenuta terra di approdo abitata da nuovi cittadini di fatto, ma sempre più spesso non ancora di diritto. È in questa contraddizione che il tema si carica di significato etico e sociale. In un tempo in cui i confini si dissolvono e l’identità si fa sempre più liquida, la sfida cui è chiamato lo Stato non è blindare il passato, ma definire un nuovo patto sociale e di appartenenza che unisca chi condivide lingua, cultura, impegno civile e adesione ai valori democratici della nostra Carta. Quindi, la Corte ha saggiamente scelto la via della prudenza, ma forse la società attende una risposta più coraggiosa, quella che riconosce che la cittadinanza non è solo un diritto trasmesso, ma una responsabilità esercitata attraverso la condotta tenuta da ogni cittadino, non si eredita, ma si costruisce attraverso un percorso civile. Essa è il terreno in cui si misura la fedeltà quotidiana ai principi della Repubblica, e non l’appartenenza a un albero genealogico. Infatti, Aristotele affermava «Non si nasce cittadini, lo si diventa attraverso la partecipazione alla vita della polis.»
Torna alle notizie in home