Unabomber, l’ultima ombra Zero dna, 2 contaminazioni. Zornitta: “Dimenticatemi”
A Trieste l’ultima parola è stata scritta in una perizia tombale, all’udienza dell’altro giorno. Nessuna corrispondenza genetica, nessun colpevole, nessuna nuova pista. Dopo ventun anni di inchieste e tre diversi filoni giudiziari, il caso Unabomber scivola verso la prescrizione definitiva. Tra pochi mesi, è la cronologia nuda, l’ultimo dei 28 attentati e 34 ordigni nelle province di Venezia, Treviso, Udine e Pordenone che hanno terrorizzato Veneto e Friuli tra il 1994 e il 2006 sarà estinto per legge. Non ci sarà più spazio per un processo, né per una verità giudiziaria.
La giustizia mutilata
La giustizia chiude, la vita no. Restano le vittime senza giustizia, e un uomo che per due decenni è stato il bersaglio sbagliato. Elvo Zornitta, l’ingegnere di Azzano Decimo, oggi è libero da ogni accusa ma non dalle conseguenze. È l’uomo che la cronaca, per anni, chiamò “Unabomber del Nordest”: il presunto autore di ordigni piazzati su spiagge, alle sagre, nei cimiteri.
Tutto falso
Il suo nome è stato archiviato nel 2009 “con tante scuse”, dopo che un assistete capo della Scientifica, Ezio Zernar, venne scoperto ad aver falsificato la prova chiave. In laboratorio, aveva ritagliato un lamierino esplosivo con forbici sequestrate a Zornitta, costruendo un incastro perfetto, un’apparente certezza. Il castello crollò quando quella manipolazione fu scoperta: il poliziotto fu condannato in via definitiva e una volta trasferito alla Polizia stradale anche promosso, mentre l’ingegnere prosciolto. Ma la sua vita, nel frattempo, era già stata distrutta. Zornitta chiese allo Stato un risarcimento da oltre un milione di euro per danno patrimoniale e d’immagine. Il Tribunale civile di Venezia gliene ha riconosciuti 300 mila, una cifra che per i giudici rappresenta, almeno formalmente, ventun anni di sospetto, isolamento, carriera spezzata. “Non ho visto ancora un euro – dice oggi Zornitta – e comunque la giustizia italiana è così. La vita non si rimonta”. Lui considera quella cifra troppo bassa. E lo Stato, paradossalmente, troppo alta: i ministeri della Giustizia e dell’Interno hanno impugnato la sentenza tramite l’Avvocatura dello Stato. Così, la vicenda che avrebbe dovuto chiudersi con una riparazione diventa un nuovo processo sulla misura del dolore.
Nuove contaminazioni
La riapertura a Trieste, voluta dal procuratore Antonio De Nicolo accogliendo l’istanza di due persone offese e di una giornalista, è stato l’ultimo capitolo. La scienza, dice De Nicolo, può fare passi avanti: si ordina una grande perizia genetica. Sessantotto reperti, ventisette oggetti, undici indagati: nessuna corrispondenza. Resta un profilo maschile ricavato da due formazioni pilifere, la traccia più concreta di “Ignoto 2”, ma privo di un nome. E resta, soprattutto, l’ombra inaccettabile di nuove contaminazioni: due, anche in quest’ultima perizia, a confermare che il rischio di “sporcare” i reperti non è un dettaglio tecnico, ma un difetto di sistema che corrode alla radice la catena di custodia. È qui che la difesa alza il sopracciglio. “Perché – domanda Paniz – una perizia così, pur complessa, impiega due anni e mezzo? Perché, se gli esiti erano “tranquillizzanti” già dopo pochi mesi, si lascia per un altro anno e mezzo undici persone in bilico, l’ingegnere Zornitta per primo, sotto un cono di sospetto che agisce come pena anticipata? E perché, se l’ipotesi di contaminazione riaffiora persino nella stagione dell’iper-cautela, non si mette mano a protocolli più rigidi, a catene documentate centimetro per centimetro, minuto per minuto?”. Paniz sottolinea che “adesso ci diranno i nomi di chi ha contaminato e faremo le nostre valutazioni, e se dovessero emergere elementi sospetti agiremo di conseguenza”. L’analisi tecnica apre anche piste mai percorse davvero. Paniz segnala due indizi materiali dell’ordigno alterato dall’ispettore Zernar: lo spessore del lamierino non in millimetri ma in pollici (standard nordamericano) e un componente collante non commercializzabile nel mercato europeo, reperibile invece in Nord America o in Russia, evenienza che appariva remota nel contesto. Indizi, non prove: ma abbastanza per chiedere, a tempo debito, verifiche verso ambienti dove la disponibilità di quel materiale fosse plausibile.
“Voglio essere dimenticato”
I sospetti puntavano su Aviano . Non è accaduto. Si è preferito il perimetro vicino, la scorciatoia del capro espiatorio. Il danno d’immagine e di reputazione per Zornitta è stato profondissimo, irreversibile. La storia, quella del risarcimento, che doveva restituire dignità all’uomo sbagliato è diventata un ulteriore labirinto di carte e scadenze. Zornitta, che oggi ha 67 anni, ha solo un desiderio: “Essere dimenticato. Voglio che la mia vita non sia più legata a quel nome. Mi hanno rovinato la carriera, la serenità, la salute. Per dormire avevo bisogno di ansiolitici. Ho dovuto ricominciare da zero”. È la voce bassa di chi non cerca più giustizia, ma tregua. Eppure, il suo caso resta un monito. Perché l’errore che lo ha travolto non è stato solo umano, ma sistemico. Una prova manipolata, una catena di custodia violata, una comunicazione tra procure mai davvero coordinata. E ancora oggi, nell’ultima perizia triestina, due contaminazioni accertate, residui biologici sovrapposti, dimostrano quanto fragile resti il sistema delle evidenze. Ma per l’ingegnere di Azzano Decimo resta la cicatrice di una vita intera passata a dimostrare di non essere un mostro. Il suo nome torna pulito, ma il prezzo è incalcolabile. La cronaca registra l’essenziale: nessuna verità, nessun colpevole, nessuna pace. Solo un nome restituito e una ferita che non si chiude. E la voce di Zornitta, stanca e definitiva: “Lasciatemi vivere in pace e dimenticatemi”.
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