Ergastolo al killer dei coniugi Fioretto Mistero sui mandanti
L’attesa è durata trentaquattro anni. E l’altro giorno, nel tardo pomeriggio, si è chiuso un capitolo che pareva destinato a rimanere tra i “cold case” italiani. Ergastolo per l’ndranghetista Umberto Pietrolungo, 58 anni, calabrese di Cetraro, appartenente alla cosca dei Muto, già detenuto per altri reati, riconosciuto dal Gup Antonella Crea di Vicenza come il killer dei coniugi Pierangelo (detto Piero) Fioretto e Mafalda (Dina) Begnozzi. Un verdetto che accoglie la tesi della Procura berica e che porta il nome e il volto di uno dei due killer, ma lascia senza risposta la domanda centrale: chi ordinò il duplice omicidio e perché? Qui la verità resta a metà, come ha ammesso il procuratore capo Lino Giorgio Bruno: “Abbiamo accertato uno degli esecutori. Ma mancano il mandante e il movente”.
25 febbraio 1991
Era una sera d’inverno, fredda e nebbiosa a Vicenza. Fioretto, 59 anni, avvocato civilista di successo, professionista delle grandi famiglie imprenditoriali come i Mastrotto di Arzignano, rientrava a casa in contrà Torretti, dove l’aspettava la 52enne moglie Dina. Una vita normale, quella di un legale integerrimo, conosciuto per il rigore (allievo prediletto del prof. Trabucchi di Padova) e l’indipendenza. All’improvviso, l’agguato, nel cortile del palazzo: testimoni raccontano di un alterco breve, voci concitate, poi i colpi di pistola. Fioretto cade sull’asfalto, la moglie che correva per avvisarlo della presenza dei due figuri, viene raggiunta e finita col colpo di grazia. Pistole giocattolo Molgora modificate con silenziatore, arma tipica della criminalità organizzata. Un delitto eseguito con freddezza, in pieno stile mafioso. Vicenza, quella notte, perde l’innocenza. Non è più la città vetrina del boom economico e dei distretti industriali. È un territorio esposto all’infiltrazione mafiosa, proprio mentre la ’ndrangheta allunga i tentacoli al Nord. Tre anni prima, nel 1988, il rapimento di Carlo Celadon, rampollo di una famiglia di conciari, liberato nel maggio 1990, aveva già squarciato il velo. La sua liberazione, dopo un riscatto milionario, dimostrò che i clan calabresi potevano colpire il cuore produttivo del Veneto. L’omicidio fu letto da subito in questa chiave da chi, come il fratello Gianpaolo, non smise mai di parlare di “delitto di mafia”. Lo ribadì anni dopo, sulle pagine de L’Identità: “Non ci sono dubbi, Piero e Dina furono vittime della mafia. Mio fratello si oppose ai suoi diktat e fu ucciso”.
34 anni fino alla condanna: l’ergastolo
Eppure l’inchiesta, per anni, non trovò sbocchi. Piste civili, contenziosi legali, ipotesi di rancori personali: tutte finite nel nulla. Solo la perseveranza della Questura e la svolta scientifica hanno riaperto il fascicolo. Nel 2012 la polizia scientifica isolò una traccia di Dna sui reperti della scena. Rimase senza nome fino al 2023, quando un confronto con un profilo genetico raccolto dopo una sparatoria in Calabria, nel 2022, diede il responso atteso. Quel Dna apparteneva a Umberto Pietrolungo, mafioso di lungo corso. Il processo si è celebrato in udienza preliminare, con il Pm Hans Roderich Blattner che ha chiesto il fine pena mai. Il suo e quello della Squadra mobile è stato un lavoro paziente, coronato dal successo in primo grado.
Una verità incompleta
Ma la domanda attorno alla quale ruota tutto resta per ora inappagata: perché un avvocato di provincia venne giustiziato con la moglie sotto casa? Il sospetto è che Fioretto, proprio per la sua indipendenza, fosse un ostacolo. Qualcuno temeva le sue mosse, le sue conoscenze, la sua capacità di difendere interessi puliti contro poteri opachi. Colpirlo era un segnale: la mafia può decidere chi vive e chi muore, anche nel cuore del Nordest. Il mandante resta senza volto, il movente senza definizione. Resta l’eco di un delitto simbolico: non un regolamento di conti privato, ma un atto politico-criminale, utile a segnare un territorio. Il funerale dei coniugi Fioretto, nel 1991, fu un rito collettivo. La città si strinse attorno ai familiari, incapace però di elaborare fino in fondo il significato di quell’assassinio. Per anni Vicenza preferì rimuovere. Ma le successive indagini sugli appalti, i traffici, il riciclaggio dimostreranno che i clan non colpiscono solo al Sud. Colpiscono dove ci sono soldi, aziende, professionisti, banche. Il delitto Fioretto è rimasta una ferita simbolica, un campanello d’allarme inascoltato. La condanna di Pietrolungo è un passo avanti. Ma non basta a chiudere la storia. Gianpaolo Fioretto lo ripete: “La verità non è completa. Non sappiamo ancora chi ordinò quel delitto”. Una verità a metà, dunque, che racconta le difficoltà del Paese ad affrontare le infiltrazioni criminali al Nord. Perché quel 25 febbraio 1991 resta il giorno in cui la ’ndrangheta dopo il sequestro Celadon rialzò la testa, tra i palazzi eleganti e le vie signorili di Vicenza. Ed è da lì che bisogna ripartire, per guardare in faccia l’ombra lunga della mafia nel cuore della provincia operosa.
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