Faccia da quorum
Più che sui contenuti dei referendum la battaglia è tutta sul quorum e la linea dell’astensione viene messa sotto accusa da opposizione e Cgil
Come in ogni occasione nella quale i cittadini sono chiamati alle urne, che si tratti di elezioni o di referendum, il confronto politico si accende e sembra aprirsi una gara a chi la spara più grossa. È tipico di ogni campagna elettorale e la consultazione referendaria dell’8 e 9 giugno non fa eccezione, anche se motivo del contendere non sono l’idea di Paese che si propone agli elettori o le differenti promesse contenute nei programmi di partiti o coalizioni, ma il raggiungimento del quorum. Il motivo è semplice: se il 50% più uno di elettori non andrà a votare si sarà dinanzi a un nulla di fatto. È evidente che per chi sostiene i referendum il raggiungimento del quorum sia dunque il principale degli obiettivi. Anzi, in realtà l’unico, perché non c’è alcun dubbio che a prevalere saranno i ‘sì’. Il motivo è molto semplice. Chi vuole abrogare le norme che si sottopongono ai cittadini deve necessariamente andare a votare, chi invece è favorevole alle leggi già in vigore può esprimersi contro i quesiti o scegliere di starsene serenamente a casa, come si dice in occasione di questi appuntamenti, di andarsene al mare proprio per far mancare il quorum. Questo atteggiamento non va confuso con il problema – gravissimo – dell’astensione, ma è una specifica strategia. Anche perché in occasione delle elezioni c’è sempre e comunque un esito, al di là dell’affluenza. In occasione del referendum non è così e quindi l’astensionismo non è esclusivamente dovuto a disinteresse, sfiducia, disaffezione, dissenso manifestato con il non voto, ma anche e soprattutto a una scelta politica. E in quanto tale assolutamente legittima, anche se sostenuta platealmente da alcuni partiti. Anche se avallata dal presidente del Consiglio che, secondo la Costituzione “dirige la politica generale del governo”, sostenuto da una specifica maggioranza, non indistintamente dall’intero Parlamento. È infatti chiaro e pacifico che un premier sia di parte, che rappresenti le istanze di partiti o coalizioni che hanno avuto un mandato a rappresentare gli elettori. Il che rende sconclusionate le accuse rivolte dai sostenitori del referendum a Giorgia Meloni e alla maggioranza per l’invito a non andare a votare che hanno rivolto ai propri elettori. Il fine di questi attacchi è assolutamente chiaro in un contesto nel quale i cittadini sono chiamati a una scelta con un voto o, appunto, attraverso il non voto, ed è quello di portare acqua al proprio mulino provando a delegittimare l’avversario anche, come dicevamo prima, sparandola grossa. Ma parlare di sgrammaticatura istituzionale o addirittura di attacco ai valori democratici rispetto a una strategia politica attuata nel pieno rispetto di una norma costituzionale, quella che fissa la necessità di un quorum per il buon esito dei referendum abrogativi, non sta né in cielo né in terra. E ancora peggio è proseguire su questa strada dopo che Giorgia Meloni ha annunciato che si recherà alle urne ma non ritirerà le cinque schede proprio per rimarcare la differenza tra l’astensione come scelta politica e quella dettata dal disinteresse. Certo, non cambia nulla ai fini del quorum, ma questa stessa strategia è quella definita poche settimane fa dall’ala riformista del partito democratico che si era espressa a favore dei soli referendum sulla cittadinanza e sugli appalti, annunciando che non avrebbe ritirato le altre tre schede. Quale è la differenza? Semplicemente nessuna. E se è legittimo anche provare a trasformare un simile appuntamento come un sì o no al governo, delegittimare la scelta del non voto solo se la fanno gli avversari ma senza dire una parola su chi assume questa stessa linea in casa propria è un chiaro esempio di doppiopesismo. I partiti di Matteo Renzi e Carlo Calenda, in modo più lineare, contestano questa strategia nel merito, dal punto di vista politico, ma non per quanto riguarda il metodo, riconoscendo che si tratta di una scelta legittima. Una cosa è recriminare – giustamente – per l’invito all’astensione formulato dal Presidente del Senato che rappresenta un’intera assemblea elettiva, non solo una parte di essa, e in funzione del proprio ruolo istituzionale dovrebbe essere super partes, altro è pretendere che un premier e la sua maggioranza non facciano politica e che, proprio come le opposizioni, non portino acqua al proprio mulino come possono.
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