Gemona, la confessione: “Ho fatto una cosa mostruosa ma ormai odiavo mio figlio”
Gemona
“Ho fatto una cosa mostruosa con Alessandro. Ma ero arrivata al punto di odiare mio figlio per come si comportava dopo la nascita di mia nipote, sua figlia. Dopo l’ennesima lite, venerdì scorso, abbiamo perso il lume della ragione perché eravamo esasperate e non ce la facevamo più, e abbiamo fatto quello che non sarebbe mai dovuto accadere”.
La madre che confessa l’omicidio del figlio: “Ho fatto una cosa mostruosa”
La voce della madre Lorena Venier si spezza più volte durante l’atroce confessione davanti al magistrato. E con lei si infrange, come vetro sotto i piedi, l’idea stessa della maternità come legame indissolubile. Nella stanza dell’interrogatorio, Lorena, 61 anni, non era più solo la caposala dell’ospedale di Gemona del Friuli stimata perché irreprensibile. Era una madre che aveva confessato di aver ucciso il figlio, fatto a pezzi il corpo con un’ascia, e nascosto i resti in un bidone di plastica riempito di calce viva, nella cantina della loro villetta.
Orrore a Gemona: il delitto che ha sconvolto il Friuli
Alessandro Venier aveva 35 anni. Viveva con la madre, la compagna Marylin Castro Monsalvo, colombiana 31enne, disoccupata, alle prese con una depressione del dopo parto, e la loro bimba nata sei mesi fa. Una settimana fa è stato ammazzato. Nessuno l’ha più visto in giro da quel giorno. Il suo corpo è rimasto per sei giorni nel silenzio della cantina. Fino a giovedì mattina, quando le due donne, in preda a un gigantesco rimorso, hanno chiamato i carabinieri. E da quel momento l’orrore si è svelato centimetro dopo centimetro, parola dopo parola, e le due donne stanno collaborando a disvelare ogni dettaglio.
Omicidio di Alessandro Venier: cosa è successo
Non c’è premeditazione, ripetono i difensori. Non c’è un piano costruito a tavolino. Ma c’è qualcosa di più spaventoso: la quotidianità che si disgrega, l’amore che si trasforma in insofferenza, poi in rabbia, infine in odio. Un odio talmente profondo da cancellare ogni istinto di protezione, ogni traccia di pietà.
“Non ce la facevo più. Era diventato insopportabile. Dopo la nascita della bambina era peggiorato. Non aiutava in casa, non si occupava della figlia, beveva, si drogava, stava steso per ore sul divano o spariva. Aveva minacciato di andare in Colombia. Marylin piangeva ogni giorno, aveva crisi di panico. Io le sono stata vicina, le ho fatto da madre, da sorella. Lei è la figlia che non ho mai avuto”. Sono parole che Lorena ha pronunciato con lucidità, secondo l’avvocato Giovanni De Nardo, ma anche con disperazione.
Una donna crollata sotto il peso di un conflitto familiare estenuante, che nessuno intorno aveva saputo intercettare. E fino a mercoledì sera, Lorena era andata regolarmente al lavoro. In corsia, al distretto sanitario, dava ordini, faceva turni, compilava cartelle cliniche. Come se nulla fosse. Con addosso ancora l’odore della calce viva usata per coprire i resti di suo figlio. Una freddezza che inquieta, e che forse non è freddezza, ma dissociazione, frattura, negazione del reale. Oppure il tentativo disperato di restare ancorata a una normalità già dissolta.
Il contesto dell’odio prende forma: una giovane madre in crisi, afflitta da depressione post-partum. Un padre assente, a tratti violento, senza un lavoro stabile, con precedenti che a volte, farneticando, minacciava di fare del male alla bambina. Una madre-nonna che si sente l’unico argine contro la deriva. Una notte d’estate, un rifiuto banale, l’ennesimo rifiuto (“Non voglio apparecchiare la tavola”) e la furia assassina delle due donne che esplode.
Toccherà alle indagini stabilire le singole responsabilità. Quest’oggi le due indagate di omicidio volontario aggravato in concorso saranno interrogate in carcere a Trieste dal Gip che firmerà l’ordine di custodia cautelare. Non è escluso che la compagna possa finire in una struttura protetta per curare la depressione. Ma Lorena, davanti al Pm Giorgio Milillo, dice anche un’altra cosa: “La rabbia covava da tempo e la goccia sono state il suo rifiuto e le minacce. Non ci abbiamo visto più. È stato un gesto estremo, sì, ma era tutto già dentro. Lo detestavo”. E aggiunge :”Non ci sono altre persone coinvolte. Siamo state solo noi”.
Un delitto compiuto, per il Pm, in uno stato di “complicità affettiva”. Un legame profondo, quasi simbiotico, tra Lorena e Marylin. “Lei è la figlia che non ho mai avuto” ripete agli inquirenti. Per la bambina di sei mesi, ora in una struttura protetta, si apre un destino sospeso.
A sconvolgere è anche il fatto che il corpo sia stato nascosto con metodo, con raziocinio. Un bidone sistemato nella cantina dell’autorimessa, lontano dalla zona giorno. Coperto con la calce viva per rallentare la decomposizione e attenuare l’odore. Una mossa che indica che dopo il gesto, le due donne hanno provato a nascondere le conseguenze. Poi ha prevalso il rimorso. E allora, giovedì mattina, la telefonata ai carabinieri: “Venite, abbiamo ucciso Alessandro”. Una madre che, dopo aver fatto a pezzi quel corpo, indossa la divisa d’infermiera e torna al lavoro. Come se niente fosse. Come se quel gesto potesse restare chiuso in un bidone. Ma i fantasmi, si sa, non restano chiusi a lungo nell’anima.
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