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Gli allarmi ignorati. Giovanni ucciso dalla mamma malata

di Ivano Tolettini -

Fiori e un camioncino giocattolo dei pompieri sono stati messi sotto il portone della casa dove una donna ha ucciso il figlio, di nove anni, tagliandogli la gola, Muggia, 13 novembre 2025. ANSA/FRANCESCO DE FILIPPO


Quando gli allarmi non bastano più. La morte di Giovanni, sgozzato dalla madre malata, è una di quelle storie che non si vorrebbero più raccontare. Non è la prima volta che un padre urla nel vuoto. Non è la prima volta che carte, verbali, referti ospedalieri e segnalazioni formali diventano carta morta. Ma questa volta, come ripete inconsolabile Paolo Tramè di 58 anni, non c’è spazio per attenuanti, equivoci, fatalità. A Muggia, alle porte di Trieste, un bambino di nove anni è stato ucciso dalla madre nonostante anni di allarmi, minacce verbali messe nero su bianco, consulenze, incontri protetti, diagnosi psichiatriche, ricorsi, richieste. Tutto c’era. Tutto era noto. Eppure non è bastato.

Giovanni sgozzato dalla madre, il fallimento

L’angosciante vicenda di Giovanni, biondino, appassionato di calcio, uno di quei bambini che nei paesi diventano figli di tutti, è la storia di un fallimento colossale del sistema giudiziario e di quello socio-sanitario. Non un guasto improvviso. Una crepa lunga anni, lasciata crescere fino alla tragedia. Le parole che Olena Stasiuk gridò nel 2018, “se io muoio, anche Giovanni muore con me”, non erano una suggestione. Erano un rischio concreto, ritenuto tale dagli stessi Servizi sociali che verbalizzarono la minaccia. Due anni dopo, il livido sul collo del bambino, refertato con tre giorni di prognosi, fu un altro segnale inequivocabile. E il padre Paolo lo ripeté decine di volte: “Non lasciatele il bambino. È pericolosa”. Lo disse al parroco, ai magistrati, agli assistenti sociali. Lo ripeté in atti ufficiali. Eppure i segnali, nella catena degli incastri decisionali, si sono dissolti.

Cosa deve fare un genitore per essere creduto quando di mezzo c’è il disagio psichico? Quante volte deve ripetere la parola “pericolo” nonostante fosse evidente che Olena Stasiuk non ci fosse con la testa? Quante prove bisogna accumulare prima che un tribunale riconosca che un rischio non è teorico ma reale? È questa la domanda giudiziaria e civile che resta sul tavolo dopo l’omicidio di Muggia.

Eppure si sapeva

La madre non era più in carico al Dipartimento di Salute Mentale “da anni”, dice l’Asl. Ma com’è possibile dismettere una presa in carico psichiatrica di fronte a minacce di morte, gesti violenti, referti medici? E com’è possibile che, una volta conclusi gli incontri protetti, si sia deciso di “liberalizzare” gli appuntamenti madre-figlio senza una nuova valutazione approfondita? Chi ha firmato quella decisione? Su quali elementi? Chi ha garantito che fosse sicura? Oggi magistrati e servizi parlano di protocolli, verifiche, percorsi. Ma Giovanni è morto perché nessuno ha avuto il coraggio, o la responsabilità, di fermarsi e dire: no, così non va, il rischio è troppo alto.

Il confine tra garanzia dei diritti genitoriali e tutela dell’incolumità dei minori va ridisegnato. Perché se un bambino è affidato al padre a causa della pericolosità della madre, non si può contemporaneamente consentire incontri privi di supervisione senza una valutazione attuale, seria, continua, che tenga conto della storia, degli allarmi e delle ricadute psichiche.

La responsabilità

In Italia, la parola “malattia mentale” entra nei fascicoli solo dopo che il sangue è già stato versato. E non prima. Non quando potrebbe salvare una vita. Le perizie psichiatriche arrivano sempre “dopo”. Le cautele “dopo”. Le sospensioni della responsabilità genitoriale “dopo”. È un sistema che fatica a leggere il pericolo quando si annuncia in tempo reale. E allora che cosa bisogna fare di più? Formalizzare di più? Denunciare di più? Arrivare a un passo dall’irreparabile per ottenere un provvedimento restrittivo? La risposta non può essere questa.

Serve una riforma severa dei protocolli giudiziari nei casi di violenza intra-familiare, soprattutto quando c’è una patologia psichiatrica documentata. Occorre che le decisioni sui minori siano prese non solo da tribunali intasati ma da équipe interdisciplinari capaci di aggiornare costantemente la valutazione del rischio. Serve che gli incontri protetti non vengano revocati in automatico, come una scadenza burocratica, ma solo dopo perizie recenti e affidabili. Soprattutto serve una cosa che non richiede leggi nuove: ascoltare davvero.

Ascoltare i segnali, ascoltare gli avvertimenti, ascoltare chi vive nella paura da anni. Paolo Trame non ha potuto salvare suo figlio, pur avendo fatto tutto quello che un padre può fare. Ed è questo, più di ogni altra cosa, che pesa come un macigno sul sistema che doveva proteggerlo e invece ha fallito. Fino a pochi giorni fa gli incontri tra la madre e Giovanni, che era affidato al padre, erano in forma protetta alla presenza degli assistenti sociali. Poi il via agli incontri liberi. “Chi è stato vicino alla famiglia – dice il parroco Andrea Destradi – , come l’allenatore della squadra di calcio, il catechista o le altre famiglie della comunità, ci vede molto più chiaro rispetto alle istituzioni che forse subissate da diverse situazioni di criticità non hanno le risorse sufficienti per fronteggiare tutto”.

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