Editoriale

Ingiustizia In giustizia

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

In un paese dove un processo penale dura spesso il doppio di un governo, il doppio di una scuola elementare per i figli, il doppio dell’università dal giorno in cui si entra alla laurea, ci si deve spicciare a sistemare le cose perché così non si tratta più di riformare la giustizia, ma eventualmente l’ingiustizia. Basta guardare gli ultimi casi di cronaca per capire che in un paese dove la verità giudiziaria se mai arriverà sarà con il prossimo Parlamento, non possiamo più andare avanti in un sistema non sincronico tra la realtà e la sua attestazione giudiziaria.

Perché se non faremo questo e in fretta saremo noi stessi a favorire il passaggio dall’etica imperativa della politica, vale a dire quel modo di intendere le istituzioni per cui di fronte al dubbio si deve sempre fare un passo indietro, tornare semplici cittadini, difendersi come tutti gli altri, per poi eventualmente manifestare la propria innocenza con forza, alla comunità birra o un sistema di etica comportamentale, dove giustamente di fronte all’assenza di una verità in tempi compatibili con la realtà diventa peculiarità di ognuno scegliere la strada più opportuna.

Chi è accusato resta in sella, chi sta all’opposizione attacca ma lo fa sapendo che il suo giudizio non pesa e non comporterà null’altro che polemiche. Non può esistere un paese in cui i comportamenti possono essere irreprensibili mentre chi è chiamato a giudicarli non lo è. E non può esistere un paese dove la sproporzione tra la forza di chi accusa e il silenzio nel quale si viene assolti non è ragione per mettere le mani sulla riforma della Giustizia e farlo velocemente. Perché l’errore giudiziario è qualcosa che fa parte della normalità e dell’umanità di chi esercita il magistero più alto, ma diventa invece doloroso in un sistema in cui accusare è sempre lecito, tanto poi per quando arriverà la sentenza di Cassazione quell’accusatore magari sarà diventato un giudice terzo e l’unico a portare il peso della soluzione più gravoso ancora di quello della condanna sarà l’imputato.

Ora si tratta di utilizzare l’imperativo guardando la questione dalla parte opposta. E’ un dovere della sinistra partecipare a questa riforma, contestare tutto ciò che dalla maggioranza arriva e che non piace, alzare la dialettica fino allo scontro politico più aspro, ma contribuire al passaggio di un paese arenato nel giustizialismo a causa di un’inchiesta mai terminata, quella Tangentopoli che ha cambiato il senso delle parole del processo e ha ribaltato il ruolo tra accusato e accusatore, per entrare in una dimensione di diritto adeguata ai tempi e capace di quelle garanzie che sono l’unica strada per poi pretendere dimissioni o passi di lato a chi viene accusato e si rimette al giudizio di un sistema che garantisca tempi ragionevoli e diritto alla difesa.

Un passaggio che non può prescindere dal dibattito sulla separazione delle carriere perché oggi in aula non è vero quello che afferma la legge scritta sulle carte e cioè che il Pubblico ministero e l’indagato stanno allo stesso livello e si confrontano di fronte a un giudice terzo. La pratica quotidiana ci mostra che la portanza dell’accusa è enorme e che il passaggio possibile da un ruolo a un altro della Magistratura rende ancora più sbilenco questo equilibrio necessario in democrazia. Curioso è pensare che il ministro Carlo Nordio ha fatto parte proprio dei Giudici accusatori, dei Pubblici Ministeri, di quelli che hanno usato gli strumenti di indagine su cui oggi si è scatenato il dibattito in Italia.

In un paese diventato così tifoso da non potersi esimere dal giudizio prima ancora non che sia arrivata la condanna alla soluzione ma che addirittura il processo sia cominciato. E’ molto probabile che se questa riforma fosse stata fatta 25 anni fa, all’esordio vero della seconda Repubblica, senza usare Silvio Berlusconi come eterna scusa per il non poter nemmeno immaginare di cambiare una regola, forse questa dibattito sarebbe più mite e forse agiremmo su un corpo malato che mostra però meno sintomi mortali.

La verità è che oggi la riforma più equilibrata è quella che sceglie nettamente una strada, senza aree grigie o senza pasticci come fu la riforma Cartabia, garantisce le necessarie compensazioni, e si attua in nome del popolo italiano senza che i soggetti attuatori pretendano di uscire dall’ambito del potere giudiziario per occupare quello legislativo. Ed è anche su questo che la sinistra, da sempre attenta a queste sfumature, può garantire una migliore riuscita di questo passaggio delicato politico e parlamentare, evitando uno scontro cieco che non fa bene a lei e non fa bene al paese, ma soprattutto che ci espone al rischio, questa volta sì, di una manovra giocata solo con i numeri della maggioranza.


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