Intervista ad Antonio di Pietro sulla separazione delle carriere
“Ho fatto tanti mestieri, detto alla Di Pietro, ho messo tante giacchette, anche processuali. La vittima, l’ho fatta. La parte civile l’ho fatta. Il testimone l’ho fatto. L’indagato l’ho fatto. L’imputato l’ho fatto. L’avvocato l’ho fatto. Il poliziotto l’ho fatto. Il magistrato l’ho fatto. Potete credermi se vi dico che dipende dalla giacchetta che vi mettete addosso per entrare con serenità o meno dentro un’aula di giustizia. Perché ad oggi si ha la sensazione che quando si entra lì si è estranei rispetto a quella nube che avvolge tutto, alla pubblica accusa e al giudice, perché fanno parte della stessa famiglia. La Costituzione però dice che le parti, l’accusa e la difesa, devono stare davanti a un giudice terzo. Ecco perché questa riforma, che non è della giustizia ma dell’ordinamento giudiziario, bisognava farla nell’89 quando è stato introdotto il processo accusatorio. Ma non è mai troppo tardi. E a me non importa chi l’ha proposta, mi interessa il risultato”. Non ha bisogno di particolari presentazioni il nostro interlocutore, Antonio Di Pietro, volto di Mani Pulite e oggi convinto sostenitore del referendum sulla separazione delle carriere. Tanto da sposare la causa del comitato SìSepara promosso dalla Fondazione Einaudi, dove lo abbiamo incontrato.
DI Pietro, lei oggi è schierato a favore della separazione delle carriere. Perché era contrario alla riforma proposta dal governo Berlusconi?
“La buonanima di Silvio cosa voleva fare? Voleva portare il pubblico ministero, che è un ruolo di cui dobbiamo essere orgogliosi perché è quello che assicura la giustizia, sotto l’esecutivo. Quello non andava bene. L’articolo 104 della Costituzione dice che la magistratura è un ordine autonomo e indipendente. Cosa cambia sul punto con questa riforma? Niente. La cosa interessante è che si stabilisce la terzietà del giudice anche fisicamente. Perché oggi come oggi le carriere, i procedimenti disciplinari, i trasferimenti vengono giudicati all’interno del Csm dove ci sono sia gli organi giudicanti sia quelli inquirenti. Quindi, oggi tu giudichi me e domani io giudico te. A fraté, come si dice a Roma… questo non va bene. Chi entrerà in un’aula di tribunale, da imputato o parte lesa, con questa riforma potrà farlo con la serenità di trovare un arbitro, non un giocatore che si è messo vestito da arbitro”.
Come spiega la posizione di chi si oppone?
“La mamma di tutti quelli che dicono No si chiama Associazione Nazionale Magistrati, che non vuole la riforma non per la separazione delle carriere, ma perché non vuole che il Csm si componga attraverso il sorteggio, non vuole che ci sia un ordine indipendente e terzo che giudichi disciplinarmente il loro operato. Invece, questa è una soluzione che impedisce una volta per tutte che chi va al Consiglio Superiore debba rispondere a chi l’ha votato, alla corrente che ce l’ha messo”.
L’abbiamo visto con quello che la cronaca conosce come caso Palamara.
“Del sistema Palamara abbiamo avuto evidenza perché è scoppiato il caso, ma se avessimo intercettato i componenti del Consiglio Superiore quanti altri Palamara avremmo trovato? Lui ha dato la fotografia di quella che era la realtà, vale a dire la spartizione degli incarichi, la valutazione dei procedimenti disciplinari nella logica dell’oggi aiuto te e domani tu oggi aiuti me. Se sei nel sistema Anm vieni favorito, se non stai dentro quella categoria sei nudo. I magistrati sul piano disciplinare non devono essere più valutati da loro stessi, ma devono essere giudicati da un organo terzo. Io preferirei che fosse così per tutti gli ordini professionali. E forse questa riforma potrebbe produrre un effetto emulativo”.
Da più parti si invoca l’esigenza di una riforma più profonda del settore giustizia. Cosa ne pensa?
“È necessaria, ma non ha bisogno di leggi speciali. Ha bisogno di più persone, più risorse finanziarie, più strumenti e più strutture. Quindi ci vogliono soldi e mezzi. La giustizia non funziona perché ogni magistrato ha mille fascicoli sul tavolo. La Costituzione ci dice che c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, ma prendere un fascicolo significa lasciarne lì 999. Ecco perché bisogna moltiplicare gli uffici, le strutture, i collaboratori e i magistrati. Ma anche le strutture carcerarie, perché un po’ di certezza della pena ci vuole. C’è troppo senso di impunità”.
Cosa è che non va nella giustizia italiana secondo Di Pietro?
“Credo fermamente sia necessario che la giustizia funzioni, ma anche che il cittadino ritrovi fiducia nella giustizia. Quando ho fatto Mani Pulite il 95% dei cittadini era a favore dell’inchiesta. Adesso la maggior parte dei cittadini non ha più fiducia della magistratura. Questo è il tema di fondo. Sa perché si è persa fiducia? Perché è arrivata una classe politica che invece di difendersi nei processi si è difesa dai processi. Ha cercato di accusare il magistrato per non essere accusata lei. Però, diciamolo francamente, se oggi non c’è più la credibilità di una volta nei confronti del magistrato è anche perché la magistratura non è più quella di una volta. Troppo spesso in questi ultimi anni il magistrato si è trasformato da ricercatore del colpevole a ricercatore della prova. Per definizione, il pubblico ministero interviene quando c’è stato un reato per cercare chi l’ha commesso. Molto spesso, invece, si fanno inchieste per cercare se qualcuno ha commesso un reato. Queste cosiddette inchieste a strascico producono effetti devastanti perché si crea un pregiudizio nell’opinione pubblica. Perché in tal modo si distrugge una vita professionale e personale, una famiglia e quant’altro. Poi, magari, in mezzo ai cento presi si trovano solo dieci colpevoli. Ne vale la pena?”.
Di Pietro, perché il Pd, un tempo favorevole alla riforma, oggi alza letteralmente le barricate?
“Questo è un difetto della politica che non accetto: il pregiudizio. Siccome l’hai detto tu che sei al governo adesso, io che sono all’opposizione devo dire il contrario. I primi a proporre la separazione delle carriere sono stati esponenti di sinistra. Vassalli non era di destra, era socialista. Anche nella bicamerale di D’Alema furono proposte le stesse cose”.
Torna alle notizie in home