Cultura & Spettacolo

Intervista con Ottavio Fatica, traduttore di “Guerra” di L. F. Céline. “Quando l’opera non rifinita è più ricca di una compiuta”

di Redazione -


di GABRIELE GRAZI

Abbiamo intervistato Ottavio Fatica, traduttore di “Guerra”, l’ultimo romanzo di L. F. Céline, edito da Adelphi.
La vicenda del ritrovamento delle pagine inedite di Céline che Adelphi in Italia sta pubblicando e a sua volta un romanzo. “Guerra” è una sorta di diade con il suo capolavoro “Viaggio al termine della notte” e devo dire, come lettore, altrettanto importante.
Quasi tutto nella vita di Céline ha del romanzesco, non c’è mai niente di sicuro, qualche passaggio chiave è saltato (di proposito?) o è inverificabile, qualcosa si è surrettiziamente aggiunto ai cosiddetti «fatti»; in buona parte anche per merito suo, o colpa per qualcuno. Guerra si può dire una costola del Voyage, riprende e approfondisce il tema bellico, e lo fa con una violenza e una lucidità inaudite. È un perfetto esempio di opera non rifinita, a volte più ricca di una compiuta.
Ci sono vari storici che lo hanno conosciuto che piùo meno esplicitamente hanno detto di Céline: “Non era facile relazionarsi, avere rapporti con lui”. Come se fosse animato da una sorta di tensione continua. Dato che del resto emerge anche dai suoi scritti. Come è stato per lei relazionarsi con lui?
Anche solo per motivi cronologici non ho avuto la fortuna o la sfortuna di avere rapporti con Céline se non sul piano letterario, che può essere però più sconvolgente di quello «umano». Ho già avuto modo di dirlo: l’ho letto per me al momento giusto, a sedici anni, e l’effetto è stato dirompente. È così che è, che deve essere uno scrittore, lo scrittore: è così che voglio essere io, ho pensato. Poi ho tradotto per conto mio i suoi Balletti, che ho sottoposto a Calasso, e pochi anni dopo ho avuto l’occasione di tradurre Il dottor Semmelweis, la sua tesi di laurea, quanto di più lontano da qualunque altra tesi. E cinquant’anni dopo le circostanze hanno voluto che tornassi a tradurlo.
Tra le varie caratteristiche dell’opera di Céline ne vorrei sottolineare due a mio avviso titaniche: in primo luogo vorrei chiederle della sua empatia per gli ultimi, della sua compassione per i diseredati dal banchetto dei potenti. Forse non vi è come una diversa grandezza, piuttosto l’osservazione di veritàessenziali perche sono esseri spogliati dal superfluo?
Céline amava più di tutto gli animali, e questo me lo rende assai vicino; pochi ne hanno scritto con altrettanta sensibilità e partecipazione, sono fra le sue pagine più belle. Diciamo che nei poveri, nei derelitti, nei diseredati – e lui non era tipo da aspettarsi che, esclusi dal bengodi, avrebbero ereditato il regno dei cieli – vedeva baluginare una fiammella, un lumino incontaminato da preservare con delicatezza, con amore. Da medico, era suo dovere assisterli, aiutarli – anche a morire; da scrittore, farci sentire quello che scorgeva in loro.
In secondo luogo la sua lingua d’avanguardia, un misto di vette poetiche e di uso del gergale. Una novitàcapace di mettere e metterci a nudo.
È la sua vera novità, il vero motivo, secondo lui, della riprovazione, della condanna quasi unanime dell’uomo e dell’opera. Ha squassato l’assetto della prosa, e vorrei dire della prosodia francese, per non parlare della psiche, anche se non ha avuto eredi veri e propri: per seguirlo sulla via di Damasco ci voleva di conserva la visione folgorante – e quella viene dall’alto o, se non ci credi, comunque da fuori, non puoi dartela.
Anche in “Guerra”, come in sostanzialmente tutti i suoi scritti, la trama si confonde indissolubilmente con la sua biografia. E’ possibile scindere la sua vita dalle sue opere, ed è giusto farlo? Céline stesso disse: “Non sono più uno scrittore, sono un cronista”.
Impossibile nel suo caso scindere la vita dalle opere. Non lo ha fatto lui, fin dall’inizio, e in seguito ha pigiato sempre più sul pedale dell’ambivalenza. Céline nell’ultima trilogia si definiva chroniqueur nel senso di cronista medioevale, come Joinville, Commynes, Froissart, o da noi i Villani per dire, gente che documentava gli orrori di un’epoca che non se ne è privata.
La tragedia èun elemento cardinale della sua visione del mondo. Lo stesso humor èsovente nero, come se fosse uno dei molteplici punti di osservazione dell’aleph del tragico, cosìcome l’erotismo.
Se con «aleph del tragico» intendi l’ineluttabilità del destino, non ne sarei così sicuro. Come tutti gli artisti Céline era romantico o classico a fasi alterne e in dosi difficilmente computabili. A tratti è più romantico del più romantico Victor Hugo; a tratti più classico di Racine. Lo humour è quasi sempre nero, a dettarlo sono le vicissitudini personali, che poi il mondo ha la compiacenza di assecondare, o così sembra. L’erotismo potrebbe essere, e solo a sprazzi, il quid che riscatta, se non proprio redime, i guasti della vita – per un attimo. Nel clima irrespirabile di Guerra è un relitto alla deriva: non resta che aggrapparvisi con tutte le forze, finché dura. Da qui il furore, l’eccesso, fino alla necrofilia: non in chiave estetizzante o filosofica però, come predicavano i surrealisti o tipi come Bataille.
Nella presentazione dell’Adelphi si parla di momenti abitati da fantasmi. Rimanendo sul concetto di tragedia, nell’apertura del libro ci muoviamo in scene che richiamano nelle tinte Shakespeare o la tragedia greca. Così come la sua opera sembra un’Odissea, in primis psicologica. Quali sono a suo avviso i principali riferimenti culturali?
Shakespeare e tragici greci sono le due facce maggiori del romanticismo e della classicità, impossibili da eludere. Come ulisside il suo protagonista e portavoce è troppo stupido, troppo iellato per farla franca: e non ha dèi a soccorrerlo.
A parte la tradizione francese, da Céline coltivata senza parere con gusto sottile per non dire sofisticato, c’è tutta una scuola tardo ottocentesca di grandi libellisti, spesso anarchici, in Italia poco nota, da Vallès a Darien, i primi che mi vengono in mente, passando per una miriade di figure eccentriche e rissose, tra decadenza e terrorismo, che ha rinfocolato la sua vena e inciso sulla lingua.
Tornando alla sua biografia, rimane incredibile e sconcertante la sua vicinanza al nazismo. Si èdato una risposta a come sia stato possibile per una persona di questo talento e dolorosa umanita? Forse anche lui cadde in un cortocircuito di quelle che oggi chiamiamo fake news?
La storia da che è storia è sempre stata portatrice anche di notizie false. Non sarei così sicuro di una sua vicinanza al nazismo, men che mai di adesione. Ho più la sensazione che fosse un collettore di malumori e paranoie, dissensi, veleni, spurghi, liquami e altri umori tossici diffusi tra la popolazione in forma isterica durante gli anni Trenta, che purtroppo per lui avrebbe poi rigurgitato macerati dagli acidi di uno stile che pare fatto apposta per esacerbarli, esasperarli, esaltarli. Un cocktail riuscito, ma venefico.
Facendo un paragone con l’oggi, quale puòessere nella nostra societa sempre piùcomplessa il ruolo dell’intellettuale?
La società di oggi non è «sempre più complessa», semmai più superficialmente complicata, e ogni epoca ha gli «intellettuali» che si merita. C’è chi direbbe che siamo fortunati a non avere più Maestri e Mostri di tale inarrivabile (per molti inconcepibile) sproporzione qualitativa rispetto al circostante, all’invalso, all’ecumenico. Non io.


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