Editoriale

La lezione di Eluana

di Tommaso Cerno -


La lezione di Eluana. Il Consiglio dei ministri ha dato la cittadinanza a Indi Gregory perché possa essere curata al Bambino Gesù e non morire in Inghilterra, dove i medici stanno per staccarle la spina. La notizia arriva nel giorno in cui Marco Cappato si autodenuncia per avere aiutato una donna ad accedere in Svizzera al suicidio assistito, dopo che l’Asl italiana l’aveva negato.

Le due storie possono sembrare in contraddizione fra loro, ma non lo sono affatto. Aprono la riflessione sulla necessità che sia il paziente a decidere, di fronte a patologie o condizioni di vita indotte dalla tecnologia, che procurano sofferenza e cancellano la dignità dell’esistenza, di poter dire la parola fine. Ma al tempo stesso ci mostrano come, perché tutto ciò sia possibile, e diventi un patrimonio culturale di un Paese civile e democratico, queste decisioni devono riguardare gli adulti, consenzienti, capaci di esprimersi in merito alla propria conduzioni direttamente, oppure attraverso il testamento biologico. Non possono, invece, toccare la vita di un bambino, soprattutto di fronte a una famiglia che intende tentare ogni strada per tenerlo in vita.

Mi sono battuto con grande forza perché nel 2008 Eluana Englaro potesse vedere rispettata la sua volontà di sospensione delle terapie che la tenevano in vita, dopo una battaglia portata avanti da papà Beppino in suo nome durata quasi diciotto anni. E proprio per quella battaglia, che vedeva espresse per la prima volta (come hanno dimostrato i procedimenti giudiziari che hanno affrontato il caso Englaro) le volontà di una persona che, nel momento in cui era chiamata a decidere per se stessa, non era più in condizioni di farlo, attraverso una testimonianza affidata a terzi. Una rivoluzione culturale che ha diviso il Paese ma che ha portato l’Italia verso il biotestamento, la possibilità cioè di disporre del proprio corpo secondo il consenso informato previsto per ogni tipo di terapia, anche quando le condizioni di salute ci impediscano di essere in grado di intendere e di volere. Nel caso di Eluana, si trattava di sospendere delle terapie che non aveva mai autorizzato, e che se avesse potuto esprimersi sarebbe stato nel suo diritto rifiutare.

Proprio nel nome di tale sentenza, oggi un caso come quello di Indi Gregory non potrebbe esistere. Perché la sentenza Englaro afferma un principio universale e cioè che la decisione in merito ai trattamenti sanitari spetta solo al paziente. E questa battaglia, che ha visto un fronte di oppositori schierati all’epoca per la vita, secondo loro, mostra oggi la sua forza proprio rovesciandone il significato. Se Englaro non avesse vinto quella battaglia e fosse passato il principio che sono i medici a decidere per Eluana, oggi in virtù di questa visione un caso Indi Gregory potrebbe essere plausibile anche da noi, perché – in linea teorica – la scienza e la politica potrebbero nel tempo indicare la via della sospensione delle terapie vitali come la strada più opportuna, più economica, perfino più etica. Non sappiamo cosa ci dirà il futuro, non possiamo essere certi che lo Stato e la medicina saranno sempre schierate per la vita a tutti i costi, come ci dimostra la Gran Bretagna.

Al contrario, la battaglia di Eluana per poter sospendere le terapie che lei stessa non voleva su di sè serve oggi a garanzia proprio di chi quelle terapie le vorrebbe tentare in eterno. Perché fu Beppino Englaro a far passare il principio che a decidere è il paziente. E chi ne è il tutore. In questo caso Indi Gregoy e i suoi genitori. Che avrebbero il diritto di dire no, senza che il medico possa fare altro che assecondarne la decisione.


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