Editoriale

La regola del padano

di Tommaso Cerno -


La regola del padano. Sebbene la Lega sia ad oggi il partito più antico d’Italia, l’Italia fatica ancora a comprendere la natura profonda del movimento fondato da Umberto Bossi. E pensa davvero che nel più leninista dei marchi politici della Seconda repubblica ci sia spazio per i distinguo di fronte alla scelta elettorale di dire no al Mes e soprattutto di dire si al Capo.

Ricordo nel 1992, quando cominciavo a fare il giornalista nel Nord-est, e in Friuli Venezia Giulia saliva al vertice della Regione autonoma il primo presidente leghista, Pietro Fontanini, quando ancora i simboli della Dc e del Psi non erano stati ammainati da Tangentopoli, che dalle parti dei Fori imperiali si parlava del Carroccio come dei Vichinghi. E di Bossi come di un troglodita. Peccato che quel signore aveva posto al paese, dal profondo Nord, i due temi chiave che ancora oggi sono irrisolti. Una riscrittura del patto politico post bellico fra il Nord e il Sud. Una riscrittura delle regole dello stato centralista in chiave federale, con un riconoscimento dei localismi e delle specificità di ogni territorio italiano.

A distanza di trent’anni quelle stesse formule, che all’epoca sembrarono rivoluzionarie e sovversive sono il patrimonio della sinistra più radical chic, della cultura enogastronomica e turistica blockbuster del paese e perfino delle direttive Ue. Eppure, basta un voto parlamentare sul Mes, ampiamente prevedibile e di gran lunga già digerito dai vertici europei, che a differenza di molti nostri commentatori sono abbastanza scafati in materia di elezioni da non immaginare nemmeno un regalo come quel via libera da parte del governo Meloni prima del voto di giugno 2024, per aprire la grande questione dello scontro fra il ministro Giorgetti e Salvini. Certo i due negli anni hanno preso toni diversi. E ricoperto ruoli differenti. Ma quello che questo sistema politico deve capire è che il ministro dell’Economia sta molto più a suo agio in questo governo di quanto stesse in quello di Mario Draghi. Perché Giorgetti è un politico vero, leghista fino al midollo, con un carattere diverso dal Capitano ma talmente ancorato nella visione del mondo del Carroccio da rinunciare perfino a sfidare Salvini, anni fa, quando una grande parte del partito avrebbe designato lui – e non Matteo – per il dopo Maroni.

La verità è che in Italia il deficit di democrazia non è affatto imputabile al presunto partito neofascista che secondo alcuni ci governa. Ma piuttosto a una sinistra che cerca nel posto sbagliato le contraddizioni del governo. E uno dei posti più sbagliati dove andare a guardare è proprio la pancia della Lega. Se Giorgetti ha un problema con Salvini è proprio l’opposto di quello che ci raccontano i commentatori. E cioè che vorrebbe poter dire quel che dice lui, su molti più temi di quanto immaginiamo. Ma ciò non è possibile. Perché lui ha il compito – per conto della Lega non dell’Uomo che fuma di X-Files né dei savi di Sion – di fare quello dell’Economia nel governo.

E così ci troviamo alla conferenza stampa a stupirci che non ci sia alcuno strappo dentro il Carroccio, perché dal 1992 noi immaginiamo e collochiamo la Lega in una specie di serie B della politica italiana. Mentre, per ciò che abbiamo visto succedere in questi 30 anni, dovremmo avere capito che – piaccia o no – siamo di fronte a una forma-partito fra le più simili alle strutture di governo della prima repubblica. E fare i conti con gente che ha gestito, per decenni, un passaggio chiave del Paese: il rapporto Nord-sud.


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