Editoriale

L’imperativo condizionale: Non parlerò di lezione dell’Ucraina…

di Tommaso Cerno -


L’imperativo condizionale: Non parlerò di lezione dell’Ucraina…

di TOMMASO CERNO

Non parlerò di lezione dell’Ucraina, perché – come è sotto gli occhi di tutti – il non senso di quella guerra, che ormai si trascina da più di un anno e mezzo, così come la sensazione di vaghezza che l’Occidente ha mostrato in questi mesi al mondo, sono una (certo fra le tante) delle ragioni per cui Hamas ha potuto alzare il livello di scontro, passando da gruppo militare islamista terroristico a vero e proprio Stato in guerra. Ma è proprio da lì che dobbiamo partire se vogliamo cogliere il significato profondo delle parole di Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, che in queste ore ha non solo inviato Blinken in Israele ma ha frenato sulla reazione d’impeto che Netanyahu aveva lasciato intendere sarebbe seguita al massacro di Hamas. Biden sa bene che l’imperativo di vincere contro il terrorismo è morale e materiale per l’Occidente.

E sa bene che a maggior ragione in questo momento la necessità di mostrarci guida salda del mondo democratico occidentale è una necessità assoluta, di fronte al caos globale che sta determinando un nuovo ordine e che vede la Cina guidare una alternativa proprio al dominio statunitense degli ultimi trent’anni. Una Cina che punta dritta a Taiwan e che da un quadro di guerra globale, con Libano e Iran in campo, avrebbe tutto da guadagnare. Biden lo sa bene. E sa anche che questo imperativo rischia di trasformarsi in un boomerang se non sarà accompagnato dal condizionale, ovvero da una precisa strategia con obiettivi chiari e condivisi e con metodi sostenibili di fronte alle istituzioni internazionali nel nome delle quali siamo in guerra su più fronti. Non un dettaglio, nel caso di Israele e Hamas.

Perché se oggi il governo di ultradestra dello Stato ebraico ha il diritto sacrosanto di reagire all’attacco senza precedenti messo in campo da Hamas, la finalità di questa reazione deve tenere Israele nell’alveo del disegno internazionale per il Medio Oriente e soprattutto deve tenere l’Occidente in una posizione tale da poter rappresentare una alternativa non violenta e democratica al diritto dei palestinesi di riprendere la strada della trattativa per la realizzazione dello stato di Palestina. Quello che invece non può avvenire è che la “vendetta” democratica di Netanyahu generi una mutazione profonda dello scontro con Hamas e della questione israelo-palestinese.

Una mutazione che veda all’improvviso finire nel nulla, come già ha rischiato di fare in questi anni, il lungo processo di mediazione per arrivare a quei due popoli e due Stati che erano la ragione degli accordi internazionali del 1949. E questo perché, se venisse meno questa strada, non solo l’alternativa sarebbe una lotta di supremazia fra il modello terroristico che vuole distruggere Israele e instaurare un califfato islamico sui territori, ma saremmo noi a dare ai terroristi un’arma in più, quella cioè di coalizzare le forze islamiste del Medio Oriente nell’idea di conquistare Israele e di affermare un dominio religioso dell’area, oltre che rendere la via violenta l’unica alternativa allo status quo per milioni di giovani palestinesi che, al contrario, dovremmo coinvolgere nel progetto di uno Stato libero e pacifico. E così l’imperativo condizionale torna a essere, o almeno prova a essere, la chiave di ingresso dell’Occidente nella delicata questione israeliana. Come avrebbe dovuto essere sempre. In questi anni. E come forse avremmo potuto tentare anche in Ucraina.


Torna alle notizie in home