L'ingresso di una nave da crociera della MSC nel porto di Napoli 1 aprile 2025
ANSA / CIRO FUSCO
Il Sud cresce, per il terzo anno di fila, più del Nord ma non è tutto oro ciò che luccica: in un Paese in cui i salari ristagnano, le paghe reali corrisposte ai lavoratori del Mezzogiorno hanno perso sei punti dal pre-Covid a oggi: i dati Svimez sul Pil delle Regioni restituiscono la fotografia, fedele, di un’Italia che cresce ma in cui il lavoro, da solo, non basta a garantire futuro e dignità mentre incombono, sulle prospettive economiche dell’intera nazione (e in particolare proprio del Sud) lo spettro della fine del Pnrr e le crepe, sempre più vistose, del modello di export che ha trainato finora il Nord.
Il report Svimez, presentato ieri a Roma alla Stampa Estera a Palazzo Grazioli, riferisce che nel 2024 il Pil del Sud è salito di un intero punto percentuale. Meglio che al Centro-Nord dove il prodotto interno lordo è aumentato dello 0,6%. Una performance, quella del resto del Paese, aggravata dalla sostanziale stagnazione registratasi nel Nord Est dove il Pil ha accusato la perdita di due decimi di punto, a fronte di una buona “prova” delle regioni del Centro (+1,2%) e del Nord Ovest (+0,9%). I numeri dimostrano, però, che la grande rincorsa del Mezzogiorno sembra che stia per rallentare. Il divario è sceso, rispetto agli anni scorsi, mentre però rimangono gli ottimi risultati legati al triennio. Nell’ultimo, tra il 2022 e il 2024, il Sud ha visto crescere il suo Pil dell’8,6% mentre, il resto del Paese, s’è dovuto “accontentare” di vederlo salire solo del 5,6%. Tre punti percentuali, possono bastare. Per ora.
Già, perché il nodo vero per il Sud, secondo Svimez, riguarda il Pnrr. Tutto nei numeri: a trascinare la riscossa meridionale, anche nel 2024, sono state le ottime prestazioni di Sicilia e Campania (rispettivamente +1,5 e +1,3%) trainate, a loro volta, dall’anno da incorniciare messo in archivio dal settore delle costruzioni (+6,3% sull’Isola, +5,9% a Napoli e dintorni). Un risultato che sembrava impossibile considerando la progressiva fine di misure come Superbonus e altri incentivi edilizi. A cui, però, ha supplito il Pnrr. Gli enti appaltatori hanno messo a gara appalti per 45 miliardi di euro, quasi la metà è stata mobilitata dai Comuni che, in questa fase, sembrano recuperare protagonismo. Da loro, difatti, sono giunte opere e investimenti per 21,7 miliardi, per un aumento percentuale a doppia cifra (addirittura +64%) rispetto al 2022.
C’è, al Sud, il rovescio della medaglia. Le paghe reali corrisposte ai lavoratori meridionali sono inferiori, di ben sei punti percentuali, rispetto a quelle erogate nel 2019, prima dell’avvento del Covid e dell’insorgere delle mille crisi, dal carovita all’inflazione, che l’hanno seguito. Un problema che è più grave nel Mezzogiorno ma che affligge tutta Italia dal momento che il salario reale medio nazionale ha perduto, da cinque anni a questa parte, ben 4,3 punti percentuali. La conseguenza, per gli analisti Svimez, è tanto ovvia quanto triste: lavorare non basta per uscire dalla spirale del bisogno e per sentirsi al sicuro rispetto al pericolo della povertà e dell’esclusione sociale. I numeri non lasciano scampo: il 31,2% dei lavoratori del Sud guadagna meno di 7.300 euro l’anno, si tratta di 1,8 milioni di persone. In tutto il Paese, il problema riguarda 4,6 milioni di unità lavorative, poco più del 21%, circa un lavoratore su cinque. Solo al Centro la situazione, per ora, sembra migliorare ma sia al Nord che al Sud, per gli analisti Svimez è in peggioramento.
Ma questo, però, non è l’unico problema che affligge il sistema produttivo nazionale. Si intravedono, nei dati non proprio esaltanti del Centro Nord e in particolare del Nord Est, le prime avvisaglie della crisi del modello expo-led dell’industria italiana. Uno scenario, complessivo, di stagnazione (-0,1%) in cui si distinguono i dati, pessimi, di Lombardia (-0,9%), Emilia Romagna (-1,3%) e Piemonte (-1,8%). L’expo dell’industria italiana è drammatico: s’è perso nel 2024 l’1,1%. A pagare, più di tutte, il Piemonte che cede quasi il 5% (4,9%). Non è niente di misterioso, anzi. E non c’entrano (per ora) nemmeno i dazi di Trump: è la recessione tedesca a inguaiare l’industria italiana come ampiamente prevedibile e previsto. C’è, infine, la crisi automotive a complicare il quadro. E ad appesantire la produzione meridionale di veicoli che ha perduto, dal 2023 all’anno passato, addirittura il 39,7% dei volumi. Male, malissimo anche il settore tessile. Una crisi che colpisce per lo più le Marche dove il calo è stato vistoso e ha superato il 29%. Bene, invece, il settore farmaceutico che consente al Centro di limare le perdite, mette a referto esportazioni per 26 miliardi di euro (+1,8%). Infine, una buona performance, in Toscana, l’ha registrata il distretto orafo che ha visto aumentare i suoi affari verso l’estero del 50%. Al Sud, oltre al flop auto ci son stati quelli dell’elettronica (-22%), della raffinazione (-13%) e aerospazio (-9,9%). A compensare, parzialmente, le perdite il buon passo in avanti dell’agricoltura che ha venduto all’estero il 10% in più rispetto a quanto fatto nel 2023.