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Giustizia

Davigo nuovamente condannato: la parabola finale dell’ex moralizzatore della magistratura

Confermate tutte le accuse nei confronti dell'ex volto di Mani Pulite

di Lino Sasso -


Piercamillo Davigo è stato nuovamente condannato. Una notizia da dare secca, con la stessa freddezza delle sentenze scritte da lui, che negli anni si è imposto come una fiera icona del più becero giustizialismo. Le conclusioni della Corte d’Appello di Brescia non lasciano, infatti, alcun margine di interpretazione: la condanna a un anno e tre mesi di reclusione per Davigo è stata confermata anche nel processo bis disposto dalla Cassazione a suo carico. Il fatto che Davigo sia stato nuovamente condannato è qualcosa che pesa non tanto per la pena in sé, quanto per ciò che rappresenta. Che l’ex volto di Mani Pulite finisse in Tribunale come imputato era una circostanza che fino a qualche anno fa sarebbe sembrata impossibile, quasi provocatoria. La sorte sa essere davvero ironica.

Davigo, un colpevole che è stato scoperto

Oggi invece, con questa nuova condanna, si certifica una caduta simbolica prima ancora che giudiziaria. Davigo, si è ritrovato dall’altra parte della barricata. L’uomo che ha costruito la sua carriera sull’assurdo teorema morale secondo il quale “non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”, oggi è il protagonista di una sentenza che descrive senza mezzi termini un comportamento illecito, consapevole, studiato. Quello di un colpevole che è stato scoperto, come a quanto pare sarebbe felice di dire lui se la condanna l’avesse decisa lui nei confronti di altri. Tra l’altro, i fatti per i quali Davigo è stato nuovamente condannato, dopo essere stato già riconosciuto colpevole, fino in Cassazione, di rivelazione di segreto d’ufficio, sono molto gravi.

I fatti

La Corte di Appello di Brescia ha ritenuto provato che il magistrato abbia diffuso a diversi membri del Csm e a parlamentari i contenuti riservati dei verbali di Piero Amara sulla presunta “Loggia Ungheria”. Ovviamente, documenti coperti da segreto investigativo. Evidentemente, non siamo davanti a un errore di leggerezza. Al punto che i giudici parlano di una “fuga di notizie senza precedenti”, di confidenze “irrituali e illecite”. Ma anche di una consapevolezza piena da parte di Davigo circa ciò che stava facendo che lo ha portato a essere nuovamente condannato. È stato anche riconfermato il risarcimento al magistrato Sebastiano Ardita. La toga veniva indicata nei verbali veicolati indebitamente come appartenente a una loggia deviata, e che ha subito danni non solo personali ma istituzionali. Davigo dovrà rifonderne le spese legali e pagare i 20mila euro già stabiliti in primo grado.

La caduta di un falso mito

La vicenda brucia e tanto, soprattutto perché scardina – finalmente – un falso mito. Davigo non è un magistrato qualsiasi: è stato per decenni il campione dell’intransigenza, celebrato da una larga fetta di opinione pubblica come il guardiano inflessibile della morale pubblica. Il suo ricorrente mantra era semplice: non bisogna avere pietà per chi sbaglia, perché la legge viene prima di tutto. Oggi quella stessa legge lo ha riconosciuto responsabile, ha messo nero su bianco che ha sbagliare è stato lui. E lo ha fatto non una, ma due volte. Il verdetto finale è che Davigo è stato riconosciuto colpevole, passando da grande accusatore ad accusato, imputato, condannato.

Una questione culturale oltre che giudiziaria

E allora la questione non è solo penale. È culturale. È la prova che il moralismo giustizialista, quando si trasforma in ideologia di potere, prima o poi rivela la sua natura fragile e ipocrita. La storia di Davigo dimostra che chi pretende di essere al di sopra della legge corre il rischio di cadere più in basso di tutti. Il fatto che Davigo sia stato nuovamente condannano è una sintesi brutale della sua parabola. L’ex fustigatore è diventato oggetto della stessa pena che applicava agli altri. E, come spesso accade, non è la condanna in sé a fare scandalo, ma l’eco ironica della storia: la giustizia che trionfa contro chi ha per anni avuto la presunzione di interpretarla a proprio piacimento.


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