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Arbitrio giudiziario in Italia: indizi, intercettazioni e il j’accuse di Bobbio

Il caso Tortora e le parole di Luigi Bobbio denunciano l’arbitrio giudiziario: indizi fragili, intercettazioni isolate e discrezionalità che travolge i cittadini.

di Anna Tortora -

Francesca Scopelliti, Presidente della Fondazione Enzo Tortora


Il caso Tortora come ferita ancora aperta

La scelta di dedicare un comitato per il Sì in memoria di Enzo Tortora riporta al centro una ferita mai rimarginata: quella di uno Stato che, nei suoi errori giudiziari, può distruggere la vita di un innocente con la stessa rapidità con cui la legge gli affida la protezione dei cittadini.
La presenza di Francesca Scopelliti, compagna di Tortora negli anni più duri, non è un dettaglio simbolico. È un monito vivente di ciò che accade quando la giustizia perde il proprio equilibrio e diventa terreno di discrezionalità incontrollata. Chi ha attraversato quel dolore conosce il peso di decisioni fondate su indizi fragili, ricostruzioni intuitive, suggestioni scambiate per prove.

Il j’accuse di Bobbio contro la discrezionalità giudiziaria

Ed è proprio su questo punto che interviene la voce più severa del dibattito: quella del magistrato ed ex senatore Luigi Bobbio, che mette a nudo i punti critici del sistema giudiziario italiano:
“Il processo penale indiziario è una barbarie. Va vietato, considerato, peraltro, che non è nemmeno codificato. Allo stesso modo, vanno vietate le condanne (e quindi i processi) fondate su sole intercettazioni. E il divieto deve essere assoluto, senza distinzione di ipotesi di reato. Anche questo è un modo per mettere fine alla assoluta discrezionalità dei magistrati, che li rende padroni delle vite di tutti.”

Una denuncia che va oltre i casi celebri e investe l’impianto generale della giustizia penale. Bobbio individua nella discrezionalità valutativa il vero punto debole: la possibilità che impressioni, indizi elastici o singoli frammenti di conversazioni intercettate diventino la base, troppo spesso traballante, per giudicare un cittadino.

Legittima difesa e uso delle armi secondo Bobbio

La sua analisi si estende poi al tema della legittima difesa e dell’uso legittimo delle armi da parte delle Forze dell’ordine, un ambito in cui, secondo Bobbio, l’arbitrio interpretativo è ancora più rischioso:
“Non c’è niente da fare. I giudici vanno costretti a fare a meno delle loro pregiudiziali ideologiche. Il solo modo per farlo (ormai è evidente) è azzerare la loro discrezionalità valutativa di fatti e circostanze, almeno in tutti quei casi in cui sia in ballo la legittima difesa o l’uso legittimo delle armi per gli appartenenti alle Forze dell’ordine.”

Non basta, secondo il magistrato, proteggere l’aggredito nel momento dell’aggressione: la difesa deve comprendere anche ciò che accade immediatamente dopo.
“In particolare va esteso il confine normativo della difesa da parte dell’aggredito fino al diritto di inseguimento nella immediatezza del fatto per recuperare la refurtiva o scongiurare ritorsioni o vendette da parte degli aggressori o, ancora, per assicurarli alla legge. Diversamente non se ne esce. Nessuna vittima deve più essere vittima due volte, degli aggressori e della ‘giustizia’.”
Parole che condensano in pochi passaggi l’essenza del problema: non è la legge, in sé, a tradire i cittadini, ma la sua applicazione quando resta abbandonata all’interpretazione individuale, alle inclinazioni personali, alle letture ideologiche.

La figura di Tortora, riproposta oggi come simbolo, non è un omaggio al passato.
È il promemoria più potente di ciò che accade quando la giustizia perde misura, rigore e limiti.
Perché una giustizia senza argini non è giustizia.
È arbitrio.

La giustizia che non risponde dei suoi errori non è giustizia

La vicenda di Enzo Tortora continua a ricordarci che l’errore giudiziario non è un incidente: è il prodotto di un sistema che non accetta di correggersi. Le parole di Bobbio aggiungono un punto fermo: senza limiti chiari, senza prove solide, senza responsabilità personali, la giustizia diventa l’opposto di ciò che pretende di essere.
Non basta cambiare le norme.
Bisogna cambiare la cultura del giudizio.
Perché un potere che non conosce misura finisce sempre per travolgere qualcuno.
E ogni volta che accade, lo Stato perde un pezzo di sé.

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