Il pasticciaccio dei dazi tra pranzi lunghi e nottate perse
Un pasticciaccio, quello dei dazi. Che fanno male anche all’America ma, di più, all’unità (o a ciò che ne resta) dell’Unione europea. Il consiglio europeo di ieri ha messo davanti due diverse strade, come al solito, rispetto al tema dei dazi. Da una parte c’è la Germania che vuol chiudere la partita quanto prima. Friedrich Merz, che nelle scorse settimane era volato a Washington promettendo una sterzata nelle trattative tra Usa e Ue, spinge perché si concluda la vicenda. C’è da comprenderlo, Merz. Dire che l’economia tedesca balbetta è esercizio di umana pietà nei confronti dell’ex locomotiva d’Europa che s’è fermata, da tempo, e che non aspetta altro che i luculliani piani del governo per tornare a ingranare. Il guaio, però, è che appresso alla Germania ci saremmo fermati (ah, santo Pnrr) anche noi. I sistemi economici italiano e tedesco sono fortemente intrecciati. E sembra questa la molla che spinge il governo italiano, sicuramente più delle comuni provenienze politiche e dell’alleanza partitica e personale con Trump, a spalleggiare la richiesta tedesca che, poi, è quella di farla finita al 10 per cento. Il fatto è che i dubbi, adesso, son venuti ai francesi. Emmanuel Macron non è certo il preferito di Trump ma la Francia è molto sensibile a determinate dinamiche. Come, ad esempio, quella della grandeur. Anche a scapito del principio di realtà: l’industria transalpina non se la sta passando benissimo ma a Parigi hanno capito che non ci si può arrendere senza combattere a Trump. Questione che è condivisa dalla burocrazia e dal ceto politico Ue. Che figura si fa al cospetto di uno che s’è candidato, ed è stato eletto, affermando di voler smembrare i “parassiti” europei? Macron, come riporta Politico, avrebbe chiesto pazienza all’alleato germanico. Aspettiamo, almeno, che si faccia ora di cena (e il pranzo non è finito prima delle 17 e 30 nonostante gli inviti alla celerità del presidente Antonio Costa…) e che Ursula von der Leyen ci aggiorni su quanto i negoziatori comunitari sono riusciti, finora, a strappare al duo grifagno Greer-Lutnik. La preoccupazione di monsieur le president è che, spingendo troppo, si finisca con l’accettare un accordo asimmetrico che sarebbe, oltre che un pugno in faccia all’orgoglio di Bruxelles, un affare pessimo per le aziende europee. In tutto ciò, però, è scoppiata pure la febbre spagnola. Madrid, o meglio il premier Pedro Sanchez, ha fatto arrabbiare Trump, e molto. E The Don gli ha promesso tariffe da tregenda. Sanchez, da leader in bilico negli equilibri parlamentari, imposto dopo un’elezione che aveva perduto, ha bisogno di cavalcare un’onda. I conservatori, a cominciare da Feijoo, lo hanno smascherato ma i giochini del consenso hanno letteralmente fatto salire i brividi alla Ceoe, la Confindustria iberica, che con il presidente Antonio Garamendi ha ricordato al primo ministro che “gli Usa sono il Paese in cui investiamo di più, oltre 80mila milioni di euro e lì ci sono 700 aziende spagnole che generano 100mila posti di lavoro”. Chi, invece, è scettico è il “solito” Viktor Orban. Il leader ungherese, sempre più a suo agio nel ruolo di guastafeste di Bruxelles, ha sferrato una sediata alla classe dirigente comunitaria: “Il problema è che per conto degli Stati uniti abbiamo negoziatori di peso, da parte nostra, l’Ue ha un leader con una capacità limitata di negoziare”. Quindi, per Orban, il guaio è che gli Usa c’hanno Donald Trump, uno che all’Art of deal ci ha dedicato tempo, studi e persino un vecchissimo libro mentre l’Ue ha Ursula von der Leyen che s’è arroccata nella torre d’avorio (con tanto di tirata d’orecchi da parte di Jean Claude Juncker). “Non sono molto fiducioso sull’accordo commerciale”, ha sentenziato il leader che ambisce a importare (senza dazi) Maga in Europa.
I dazi, quel pasticciaccio, fanno male all’Unione europea. Che, però, ha ancora tempo prima che scada il termine del 9 luglio. Aspettare, però, è un lusso che l’Europa non si può permettere. Perché non ha una leadership e deve demandare le decisioni importanti, quelle che veramente contano, ai consessi tra leader dei singoli Paesi. Un’estenuante e continua mediazione tra interessi di volta in volta confliggenti o vicini. Ma le tariffe fanno male anche all’America. Sono usciti i dati del Pil americano e la contrazione, per quanto attesa, è risultata più grave del previsto. Gli Stati Uniti, nel primo trimestre di quest’anno, hanno perso mezzo punto di prodotto interno lordo a fronte di previsioni che davano il rosso per “soli” due decimi. Il guaio, stando agli analisti del Dipartimento Usa per il Commercio, non è stato tanto nei dazi quanto nell’attesa, nell’incertezza che avrebbe, temporaneamente, bloccato le attività economiche americane. Un pasticciaccio, quello dei dazi, per tutti.
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