Attualità

Disastro Caffaro, a processo Todisco e tre manager

di Ivano Tolettini -


Bastano i quattro aggettivi utilizzati dalle autorità (Arpa, Ats, Tar Lombardia e Corte d’Appello civile di Milano) nei documenti di loro pertinenza, e ripresi a pagina 13 dal Gip nell’ordinanza del 3 febbraio 2021, a proposito del caso Caffaro – “spaventoso, sconcertante, impressionante e drammatico” – per inquadrare un fenomeno di gravissime proporzioni. Si comprende perché il Procuratore capo, Francesco Prete, nel 2021 lo definì un “cancro ambientale”, allorché l’azienda chimica Caffaro venne sequestrata, poiché l’avvelenamento di Brescia non è esorcizzato. La barriera idraulica, il cosiddetto Mise, che deve preservare la Leonessa d’Italia dall’inquinamento che da decenni l’ammorba, pur essendo stato quasi completato non è ancora del tutto operativo. E’ emerso all’udienza celebrata nei giorni scorsi. Ci vuole ancora del tempo, almeno quaranta giorni, affinché l’Istituto superiore di sanità comunichi i parametri che dovranno essere rispettati per i limiti di legge del Pcb per l’acqua emunta dal sottosuolo, in modo tale da selezionare i filtri idonei. Nonostante tra il 2004 e il 2019 per i tecnici dell’Arpa la concentrazione di mercurio nel terreno su cui sorgeva il reparto del clorosoda è aumentata, con presunte responsabilità dell’imprenditore Antonio Donato Todisco, 68 anni, presidente del Cda della Caffaro Brescia che gestì l’impianto dal 2011, e dei manager Alessandro Quadrelli, Alessandro Francesconi e Vitantonio Balocco. Per i quattro giovedì scorso è iniziato il processo davanti al tribunale presieduto da Chiara Minazzato. Devono rispondere a vario titolo di disastro e inquinamento ambientale perché nonostante gli accordi sottoscritti con il commissario straordinario di nomina governativa Marco Cappelletto della Caffaro – a processo pure lui ma davanti al gup l’11 giugno prossimo con il rito abbreviato assieme all’altro commissario Roberto Moreni e il procuratore speciale Alfiero Marinelli per ipotesi di reato meno pesanti – gli imputati non avrebbero garantito “mediante l’implementazione del sistema di abbattimento degli inquinanti ed un più incisivo pompaggio delle acque, l’efficienza della barriera idraulica denominata MISE”. La prima udienza è scivolata via abbastanza veloce e il dibattimento, nel quale non si è costituita alcuna parte civile, è stato aggiornato all’estate, il 16 luglio prossimo quando sarà depositata anche la perizia fonica su una ventina di intercettazioni eseguite dagli inquirenti.
Quasi tre anni fa il gip Alessandra Sabatucci ordinò il sequestro oltre che dello stabilimento del clorosoda, che produceva pastiglie soprattutto per le piscine, anche di 7,7 milioni nei conti dell’azienda del gruppo pisano Todisco. Tre di essi sono stati poi scongelati perché sono serviti per costruire la barriera idraulica, il MISE, che non è ancora entrata in funzione nel Sito di interesse nazionale. Per comprendere il perimetro del grande avvelenamento, va ricordato che, come scrive il gip, “il disastro innominato riguardava l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque sotterranee e delle rogge superficiali ove aveva sede lo stabilimento chimico di via Nullo 8, nonché delle zone agricole ad essa limitrofe per un territorio complessivo di 262 ettari”. La produzione si è conclusa nel 2019 allo scadere dell’autorizzazione integrata ambientale di cui alcune aziende chimiche hanno bisogno per uniformarsi ai principi di “Integrated pollution prevention and control (IPPC)”, dettati dall’Unione europea dal 1996. Tuttavia, il sito è tuttora caratterizzato, come si legge negli atti processuali, dalla presenza nelle “matrici ambientali” di sostanze tossiche e cancerogene “sino a 100 volte maggiore di quella massima consentita” tra cui i policlorofenili, individuati dalla sigla Pcb, “nocivi al pari della diossina”. La tesi difensiva di Todisco e degli altri imputati è quella di non avere aggravato l’inquinamento storico della fabbrica in funzione dalla fine dell’Ottocento, perché il 7 marzo 2011 quando sottoscrissero il contratto con cui rilevarono le attività produttive il quadro ambientale era già negativo. Il dibattimento servirà a discernere il grano da loglio, anche se i tempi si annunciano lunghi. Gli imputati dovranno difendersi dall’accusa che gestendo la Caffaro, “si assumevano l’impegno di contenere e non aggravare il disastro ambientale”.


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