Cronaca

GRAVI INDIZI DI REATO – Oltre la sentenza: la vicenda Stefano Cucchi e i doveri dello Stato

di Francesca Petrosillo -


La storia di Stefano Cucchi si impone come uno dei casi più emblematici di abuso di potere e di violazione dei diritti umani in Italia. È il 15 ottobre 2009 quando Stefano, geometra romano di 31 anni, viene arrestato dai carabinieri per possesso di droga: ha con sé alcune confezioni di hashish e pasticche. Da quel momento, inizia una spirale tragica che, nell’arco di una settimana, conduce alla sua morte.

Dopo l’arresto, Stefano viene portato nella caserma Casilina di Roma, dove — secondo le ricostruzioni successive — subisce un violento pestaggio da parte di tre carabinieri. Il giorno dopo si presenta in tribunale per la convalida dell’arresto: è visibilmente provato, cammina a fatica, ha il volto scavato dal dolore. Eppure, nessuno interviene per comprendere l’origine delle sue condizioni. Viene trasferito al carcere di Regina Coeli e poi ricoverato all’ospedale Sandro Pertini, in regime di detenzione. Qui rifiuta cibo, acqua e cure, ma è evidente che le sue condizioni fisiche e psicologiche sono il risultato di un’aggressione brutale.

Il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore, pesando appena 37 chili. Sul suo corpo vengono riscontrati ecchimosi, due vertebre fratturate e lesioni compatibili con un pestaggio. Le immagini del suo volto tumefatto, rese pubbliche dalla famiglia, sconvolgono l’opinione pubblica e innescano un’ondata di indignazione.

Sua sorella, Ilaria Cucchi, decide di non restare in silenzio: inizia una battaglia civile e legale che durerà anni, trasformandosi in un simbolo della richiesta di giustizia nel nostro Paese. Il processo è lungo, tortuoso, pieno di omissioni, depistaggi e silenzi. Inizialmente vengono indagati solo medici e infermieri, e nessuno tra le forze dell’ordine è chiamato a rispondere. Solo nel 2015, grazie alla testimonianza del carabiniere Francesco Tedesco e all’emergere di nuove intercettazioni, si fa luce sul pestaggio avvenuto nella caserma. Tedesco rompe il muro di omertà e accusa due colleghi: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Nel 2019 arriva una sentenza storica: i due carabinieri vengono condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale.

Il caso Cucchi segna un punto di non ritorno: si accende il dibattito politico sulla videosorveglianza nelle caserme, sul reato di tortura, sul rispetto dei diritti dei detenuti. L’Italia si guarda allo specchio e scopre una verità scomoda: lo Stato può fallire proprio dove dovrebbe garantire protezione e giustizia.
La vicenda di Stefano Cucchi, però, non è solo un caso giudiziario, e non si chiude con una sentenza: resta un richiamo costante alla necessità di uno Stato che sappia vedere, ascoltare e proteggere, anche — e soprattutto — chi non ha voce.


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