Economia

IL BANCO PAGA

di Cristiana Flaminio -


“Alla luce delle informazioni fornite dalla Banca d’Italia”, le recenti crisi bancarie tra Usa e Svizzera, “non avranno effetti diretti” sull’ecosistema bancario italiano “stante la contenuta esposizione delle nostre banche nei confronti degli intermediari statunitensi e svizzeri”. Ne è sicuro, sicurissimo, il ministro Giancarlo Giorgetti. Che ieri ha risposto così a un’interrogazione parlamentare presentata alla Camera sul tema, scottante, del momento: la crisi del settore creditizio nel mondo occidentale. Giorgetti ha sottolineato che le banche italiane “hanno livelli di capitale e liquidità soddisfacenti”. E ha applaudito alla loro strategia che, nel corso degli ultimi anni, le ha portate a ridurre “significativamente il livello di non performing loans”, ossia di debiti insoluti e inesigibili. Contestualmente, il titolare del dicastero di via XX Settembre ci ha tenuto a precisare che “la qualità degli attivi” del settore creditizio italiano “è molto migliorata”. Per ora, dunque, la buriana che ha attraversato il mondo bancario tra Usa ed Europa, non è ancora arrivata in Italia. Ma chi crede che sia finita, solo per questo motivo, oltre a essere miope, sbaglia di grosso.
First Republic Bank, a Wall Street, ha perduto quasi il 90 per cento del valore dei suoi titoli in pochissimi mesi. L’ultimo brivido s’è avuto nei giorni scorsi quando i dati del primo trimestre hanno fotografato l’ovvio. E cioè la fuga dei depositi che, a marzo, è risultata ancora più grave di quanto preventivato. Sono scappati i correntisti, portandosi via qualcosa come cento miliardi di dollari. Praticamente, in banca, c’è rimasto poco o nulla. Ma non basta. Per capire quanto profonda sia la crisi, basta pensare che oggi le azioni di quella che è stata una delle più importanti banche regionali degli Usa, valgono meno di sei dollari l’una. Poco più di un anno fa, all’inizio del 2022, il valore dei titoli era di pochissimo superiore ai duecento dollari. Il mondo finanziario Usa si interroga sui costi di un eventuale salvataggio o sul prezzo da pagare per il suo fallimento. Ogni crisi comporta un’opportunità, dicono i lupi di Wall Street. E alcuni funzionari e dirigenti delle grandi banche americane vede, nel crollo di Frb, il colpo di grazia al credito regionale. E, ovviamente, una possibilità di allargare, ancora di più, i propri affari.
Mentre l’America si ritrova alla vigilia di una nuova crisi, la Svizzera si lecca le ferite. I dati della trimestrale di Credit Suisse sono da far saltare i polsi. La fuga dei correntisti dal (fu) secondo istituto di credito elvetico è costato alla banca un deflusso di denaro pari a circa 61,2 miliardi di franchi. Poco meno di 62 miliardi di euro, circa 69 miliardi di dollari. A complicare il quadro ci sono i dati legati alla performance. Già le aspettative erano basse, la realtà s’è dimostrata desolante per Cs. Ci si attendevano perdite tra i 700 milioni e il miliardo di franchi, Credit Suisse invece è arrivata ha registrato una perdita secca da 1,3 miliardi di franchi. Un massacro. Ubs, che ha acquisito Credit Suisse, è andata molto meglio. Ma toccherà lavorare moltissimo per riportare la situazione nei binari giusti.
Intanto Deutsche Bank, dopo le fibrillazioni delle scorse settimane, ha comunicato di aver conseguito utile ante imposte pari a 1,9 miliardi di euro soltanto nel primo trimestre di quest’anno. Registrando una crescita del 12% su base annua. In pratica, si tratta della migliore performance trimestrale dal 2013 a oggi. Insomma, la banca tedesca ostenta solidità, sicurezza.

Torna alle notizie in home