Editoriale

Il veganesimo progressista

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Chef Schlein, passatemi il bisticcio consonantico, cucina una sinistra che non è né carne né pesce. La colpa non è sua ma del veganesimo progressista, la nuova dottrina che impone alla sinistra la censura politicamente corretta perfino ai suoi valori. Il non voto di pochi giorni fa sull’emendamento Magi in tema di utero in affitto, pardon, gestazione per altri in vegano progressista, è lo specchio di questa vaghezza che la sinistra continua a spacciare per libertà di coscienza. Ma se sul tema della filiazione tecnologica il dibattito è agli albori nel mondo intero e di fronte al Pd c’è una destra talmente netta sul no da rendere questo gap culturale già di per sé sufficiente a dirsi diversi da Meloni, la riforma della giustizia senza carne e senza pesce sarà una tomba per l’opposizione.

La ragione è semplice: la giustizia in Italia non funziona, costa cifre esorbitanti, immobilizza migliaia di aziende per anni e milioni di cittadini con loro, mentre la maggioranza dei giudici lavora in un terzo mondo amministrativo e il dibattito si concentra sulla difesa d’ufficio di pochi potenti magistrati che hanno usato e usano le inchieste e i media amici per diventare da giudici accusatori a soggetti politici capaci di incidere sul Paese. La destra avrà due armi cariche: la spinta verso il traguardo che per buona parte dell’attuale maggioranza corona un sogno riformista nato trent’anni fa quando Silvio Berlusconi scese in campo e impedito proprio dalla presenza ingombrante del suo ideatore, quel Cavaliere nel nome del quale Forza Italia sarà tetragonale al governo in tutto il percorso di approvazione.

Seconda arma il premier Meloni, che ha già mostrato quale sarà il suo ruolo: medierà e frenerà con la sua dote più spiccata, il buon senso popolare, che in questo frangente mette insieme le aspettative di una parte dell’Italia che di questa giustizia non ne può più ma che teme le fughe in avanti verso l’ignoto, e quella di Sergio Mattarella che ha come obiettivo dimostrare che la Costituzione di fronte a un cambiamento di questa portata ha ancora la forza morale e storica per mettere i giusti paletti anche al più scatenato dei riformisti. Ed è qui che chef Schlein dovrà servire l’unico piatto che la sinistra avrà a disposizione per mostrare al Paese che il suo ruolo in Parlamento non è quello di un’organizzazione politica di odiatori seriali della Meloni, ma quello di una componente fondativa della Repubblica e dei valori su cui la nostra democrazia è sorta che è in grado di incidere quando il Parlamento apre la strada a una riforma di questa portata.

E’ qui che si giudicherà per la prima volta la consistenza politica del nuovo segretario democratico, che avrà a che fare anche stavolta con un partito diviso fra falchi e colombe, con l’aggiunta di un’area moderata che fa riferimento a Renzi e Calenda che giocherà su due tavoli, e che dovrà scegliere l’ingrediente del piatto senza cedere a mediazioni evasive del problema: il Paese ha bisogno di chiudere l’equivoco seguito a Tangentopoli per cui la condanna si afferma prima del processo e l’iter costituzionale per arrivare a una sentenza terza si trasforma in una verifica di quanto ormai già deciso.


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