La frustrazione diventa gogna sui social
Un’escalation inaccettabile, una spirale perversa espressione di un narcisismo digitale alimentato dalla frustrazione di una continua e spasmodica ricerca di visibilità. Cosa spinge un professore, un impiegato, una casalinga, un medico o qualsiasi altra persona “perbene” fino a prova contraria ad esporsi pubblicamente con post e commenti online che trasudano odio viscerale e ingiustificato? Il caso limite del docente della provincia di Napoli che – orrore puro – ha augurato la morte ad una bambina, la figlia di otto anni della premier Meloni, non è purtroppo un episodio isolato. Basta scorrere i commenti sotto i profili di personaggi noti, politici e non, o nelle pagine social dei talk tv di politica per accorgersi che il 90% sono insulti irripetibili e minacce. Gente che si esprime con un linguaggio tossico, peraltro non sempre schermata da nickname, e ne è pure fiera: postare gattini e bandiere della pace dopo un po’ annoia, perché allora non provare il brivido del “male”? Perché non dare sfogo ai bassi istinti, offendere nella consapevolezza dell’impunità? E no, la colpa non è dei social che “creano mostri”: l’odio in rete non è generato dallo strumento tecnologico (o da un algoritmo) ma da chi lo usa per liberare le proprie peggiori pulsioni. Dietro ogni parola c’è una scelta e, ogni tanto, ci sono delle conseguenze. Con tutta la umana pietas per il sopracitato professore che ha tentato un gesto estremo per essere a sua volta finito nell’inferno della gogna mediatica, avrebbe dovuto immaginare che l’effetto boomerang di augurare la morte ad una bambina sarebbe stato devastante. L’uomo non ha “retto”, perché allora dovrebbero “reggere” Meloni, Salvini e quanti ogni giorno vengono presi di mira? E che non si dica che per chi è famoso “fa parte del gioco”. Perché non è un gioco.
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