Editoriale

La guerra e il G7 per cento

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Come può la sinistra, in campo per l’autodeterminazione dei popoli e per i diritti degli esseri umani, non rendersi conto che la guerra che sta cambiando il mondo ha una strategia “democratica” decisa da un G7 che rappresenta il 7 per cento del pianeta? Perché qui sta il punto che ha determinato l’incredibile appiattimento sulla destra in tema di armi e di morte sui campi di battaglia. Anche i più distratti hanno capito che in Italia non c’è alcun distinguo reale. Perché la sinistra ha perduto da tempo la consuetudine con la propria anima e con le proprie parole d’ordine, per cui ha paura di dire le cose che stanno dentro la sua storia.

I distinguo cui abbiamo assistito, quello inconsistente sui soldi del Pnrr per gli armamenti, che fra l’altro ha visto una discrasia fra la posizione del Pd in Europa e in Italia, dimostrano che la classe dirigente progressista sente che i conti non tornano. Percepisce, per una specie di effetto eco lontano, che le parole d’ordine su libertà, democrazia e addirittura resistenza, stridono con la realtà. E teme che mutare questa posizione significhi spostarsi dall’asse atlantico e soprattutto essere tacciata di quella parola strabusata in Italia, il filoputinismo.

Lo teme al punto da dare l’impressione, non soltanto di credere nella strategia Nato per far finire la guerra, cosa che ripete dallo scorso febbraio, senza che sia mai stata vera per un solo giorno. Ma addirittura di votare per sostenere questa strada, i miliardi di euro in armamenti, oltre che quelli che saranno stanziati per il riarmo dell’Italia e dell’Unione europea in un momento di devastante crisi economica, con soddisfazione, felicitandosi di ciò che fa. Ma è un errore. E qui Putin non c’entra nulla. Nè c’entra la guerra in Ucraina. C’entra il fatto che in questi mesi il mondo ha mostrato quale sarà la nuova strada che si sta imboccando e ha scritto a chiare lettere davanti a tutti noi il termine che connoterà i prossimi ottant’anni di questo secolo: multipolarità. E che su questa enorme metamorfosi del nostro sistema economico e sociale nessuna sinistra stia aprendo una riflessione.

La domanda è semplice: c’è una guerra in corso che tocca più delle altre settanta nel mondo. C’è un’area del pianeta rappresentata dal G7 che sta prendendo le grandi decisioni in merito per tutto l’Occidente. C’è la presa d’atto che oggi, però, quell’area rappresenta il 7 per cento scarso della popolazione della Terra. E c’è il fatto che di ciò che pensano e che faranno questi otto miliardi di esseri umani nessuno si sta occupando davvero. Come può la sinistra non farsi questa domanda? Come può davvero pensare di ritrovare una sintonia con il popolo e con la storia di questi anni senza rendersi conto che i fenomeni che stanno esplodendo e che si abbattono sull’Europa più che altrove sono solo i primi frutti di non mondo nuovo e non l’eterno strascico di un vecchio sistema, tanto che le formule a noi care per affrontarli non funzionano più? Sta tutto qui quel senso di alienazione che accompagna ormai le uscite del big di turno, che sembra riproporci un ritornello di una canzone che non canta più nessuno, immaginando che come è stato per decenni prima o poi tutti lo ripeteranno.

E invece non succede. Non succede perché la democrazia non può ignorare il 93 per cento del pianeta senza che questo generi un difetto operativo, per così dire, nell’azione politica di chi dovrebbe sognare – per definizione stessa di sinistra – una nuova società dove meriti e bisogni ritrovino un equilibrio dinamico ed espansivo. Strada lontana oggi dall’agenda politica di Elly Schlein, che finora ha scelto la dimensione italiana come sfondo e lo scontro con la destra di Giorgia Meloni come unico copione in scena.


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