Editoriale

La lotta di (prima) classe

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Marx ci berrebbe sopra un bel boccale della birra che tanto amava dai tempi della scuola: mai avrebbe immaginato che la sua lotta di classe, pilastro della critica al capitalismo dalla rivoluzione industriale, sarebbe diventata lotta di prima classe.

L’Italia della classe media, dove i ricchi e i poveri ci sono sempre stati, ma rappresentavano una parte esigua del tessuto sociale, che era invece composto da milioni di famiglie “normali” che avevano però la capacità e la possibilità di costruire un percorso di vita capace di portarle più avanti del punto di partenza, garantendo un miglioramento progressivo della capacità di spesa, la costruzione di un piccolo patrimonio, l’acquisto (reale, non il mutuo a vita) di una casa e pure di una seconda, l’educazione dei figli, non esistono più.

Erano loro gli italiani, quelli che riempivano le spiagge in estate e le trattorie d’inverno, quelli del veglione e della festa del papà, quelli del pieno a fine settimana, quelli della pizza con i cuginetti due o tre volte al mese, quelli che mandavano il figlio a studiare in città e riuscivano a pagargli la pigione. Quelli che non si indignavano se qualcuno aveva più di loro, perché l’Italia dava loro i mezzi per potercela fare, per avere di più, per potersi affermare nella società.

In poche parole, l’Italia dava loro un lavoro inteso come un lasciapassare sociale, attorno a cui non si formava solo il reddito ma anche la coscienza sociale, il percorso di avanzamento che ognuno poteva intraprendere, consapevole dei propri pregi e dei propri limiti, conscio che nel Paese ci sarebbe stato un posto per lui. I ricchi c’erano anche allora. E Capri o Portofino costavano troppo per la maggioranza di noi anche allora. Anche allora c’erano gli yatch da capogiro al largo delle Eolie o a Positano, anche allora a Cortina d’Ampezzo vedevi le Rolls Royce e pagavi una notte in hotel cinque volte tanto.

Ma non faceva incazzare, al limite faceva capire che c’era qualcosa di più che si poteva tentare di raggiungere se si fosse capito in che modo e se ne avevano le capacità. Quel capitalismo medio, insomma, simboleggiato dalla bigiotteria, l’idea che tutti potevano ambire a un proprio status senza necessariamente possedere i diamanti del tesoro della Corona. Quello che ha mandato avanti l’Italia per cinquant’anni e che oggi non esiste più.

Oggi come ci mostra l’Ocse noi siamo ancora un Paese ricco, forse anche più di allora. Ma questa ricchezza sta tornando nelle mani di sempre meno italiani. Oggi noi siamo i meno pagati fra i paesi ricchi, il che fa di noi il più povero dei ricchi in quanto a potenziale. Oggi, dopo il disastro del Covid, i nostri salari medi che fanno ridere rispetto a paesi d’Europa come la Germania che per lo stesso lavoro paga il doppio e anche il triplo, non stanno salendo come sarebbe logico immaginare, garantendo a milioni di persone di poter contribuire alla crescita con il proprio potere d’acquisto, ma stanno scendendo ancora di più, di un 7 per cento, mentre i prezzi salgono del 10 per cento (a essere ottimisti) e le banche barrano le porte, per la regola del post-capitalismo che si presta denaro a chi già ce l’ha e non più a chi ne ha bisogno. Oggi il problema non è più il salario minimo, ma il salario massimo. Oggi è il momento di dirci che sono le regole del gioco che vanno cambiate. Altrimenti saranno solo pezze. Pezze in quel posto.


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