Editoriale

La sindrome di Gulliver

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Come in un’Italia di Lilliput il dibattito politico soffre della sindrome di Gulliver. La manovra che deve tentare di mantenere le promesse del governo a parole è un gigante, ma con i soldi in miniatura. Allo stesso modo le fauci dell’opposizione si aprono, come quelle di un grande e possente essere capace di dominare la visuale del mondo reale da un’altezza che non corrisponde più a quella dei governi, ma di tutta questa sapienza nulla o poco meno saprà trasformarsi in proposta di mediazione. È come se le vacche magre fossero ormai l’orizzonte inamovibile e la politica recitasse una parte in commedia, dove tocca oggi a te e domani a me prendersi le stesse bastonate, mentre manca del tutto il grido unitario di chi chiede in parallelo alle lacrime e sangue cui ci ha abituati ormai da oltre un decennio il capitalismo occidentale una ridefinizione degli impegni internazionali e finanziari tra Paesi amici, una specie di tregua che ci renda capaci di movimentare le nostre economie dormienti. E di farlo quel tanto che basta per tenerle in vita.

Invece assistiamo all’ennesima manovra dove bianco e nero sono le uniche tonalità, quando il mondo là fuori e soprattutto i problemi che gli italiani affrontano da ben prima di questo governo e che affronteranno per molto tempo ancora sono di mille colori. E’ come un gioco di ruolo che si perpetua il dibattito di un Parlamento che vede emergenze calamità naturali quando piove, ma non trova che lo scenario in cui ci muoviamo meriti questa stessa classificazione. D’altra parte uno Stato che ha bisogno di uno stupro di massa per scoprire Caivano, un luogo dove tre quarti degli adolescenti non hanno mai visto un vigile urbano, un sindaco, né lo Stato in ogni sua forma, la dice lunga sulla distanza che c’è tra quello che noi vorremmo fosse il Paese in cui viviamo e quello che esso è realmente.

Giorgia Meloni mostra di seguire la via delle parole chiave di una ricetta elettorale che avrebbe bisogno di molto più denaro per diventare una pietanza e nutrire il sistema ma che continua a fondarsi sull’idea di una minore tassazione del costo del lavoro in sostituzione agli incentivi o ai sussidi di Stato. Ora serve che a questa indicazione segua il coraggio di fare quadrato nella sua maggioranza. Perché non abbiamo il tempo né le risorse per vivere una manovra già risicata e striminzita in partenza dentro un clima elettorale che ha due diversi canoni atletici che si scontrano: quello del premier che punta sulla marcialonga, giocando sul realismo di un Paese che ha sentito troppe volte gridare alla riscossa per poi trovarsi più nel pantano di prima, e i partiti della coalizione che sentono il campanello delle elezioni europee ancora più allarmante e cercano di trasformare la maratona in una gara di 100 metri, fatta di parole chiave ascrivibili alle diverse sensibilità del centrodestra.

Tutto logico e tutto giusto, ma governare significa anche sospendere la tensione elettorale e sta in carico a chi ha vinto lo sforzo di farlo, di fronte a un Paese che non può avere tutto, forse nemmeno molto, ma quel poco che avrà hai il diritto che sia il meglio possibile. Bisogna uscire dallo schema compensativo, tanto nelle scelte economiche quanto in quelle istituzionali. Dove si sente la tensione bifocale fra le prove tecniche di un premierato forte nell’idea di Fratelli d’Italia e la riforma delle autonomie come bilanciamento vero per garantire alla Lega il mantenimento della leadership al nord, un nord che negli ultimi anni ha perso la propria passione federalista che se nell’era padana vedeva in questa dimensione un riscatto e un equità, oggi si sente in pericolo per la mutata condizione di base del proprio sistema industriale, per cui già l’Italia rappresenta una dimensione sia geografica che politica troppo piccola e dispersiva.


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